Qualche settimana fa ero con altre dieci femmine all’addio al nubilato di un’amica, da qualche parte nelle Langhe. Essendo un gruppo di trentaequalcosenni del ceto medio riflessivo, eravamo reduci dalla nostra brava degustazione di vini locali e da una cena seduta da signorine per bene e un terzo della comitiva era composto da donne incinte, metà da titolari di podcast (fuori da questo diagramma di Eulero-Venn di portatrici di borse di tela restano una poetessa e un’investigatrice privata, che comunque avevano visto l’ultimo film di Nanni Moretti al cinema e comunque avevano una borsa di tela). 

Karaoke e ventenni

Eravamo abbastanza fiere del nostro contegno: nessuna maglietta del Team Bride, neanche una cannuccia a forma di pene. L’unico strappo alla regola, la piccola concessione che ci eravamo fatte per tentare di dimostrare a noi stesse che anche dopo i trent’anni, anche incinte, anche se si fanno i podcast, ci si può ancora divertire come un tempo, era un attrezzo per il karaoke non particolarmente sofisticato (una cassa con un microfono tipo quella con cui Billy Crystal canta Il calessino con le frange blu: 39 euro in autogrill) con cui la futura sposa poteva dilettarsi (dilettarci), scegliendo se cantare una canzone o lanciarsi in un omaggio a Enrico Lucci, molestando sconosciuti per strada. Tra una cover di Un’emozione da poco da far scappare i gatti sotto le macchine e alcune interviste estemporanee agli avventori dell’unico bar aperto oltre la mezzanotte in un paese di cui non ricordo il nome, ci siamo ritrovate a passare la serata con un gruppo di maschi ventenni, non perché volessimo, ma perché erano lì e noi pure. Se da un lato questi non si spiegavano come fossimo finite a Piccolo Paese delle Langhe, erano invece molto divertiti dal trabiccolo per cantare, un’ottima alternativa gratuita al Sottaceto, discoteca della vicina Mondovì dove alcuni sarebbero dovuti andare a passare il resto della notte. 

A un certo punto uno di loro ci urla: «Metti quella canzone simpaticissima dei vostri tempi, quella della Vespa» come se fossimo cresciute ascoltando il Quartetto Cetra, e da che ci aveva fatto una buona impressione perché aveva offerto una grappa alla sposa (la proverbiale cortesia piemontese attecchisce presto, persino nei giovani uomini di campagna) ora ai nostri occhi era diventato un neonato insolente. Dei vostri tempi? Simpaticissima? Come osi non sapere il titolo di 50 Special?

Mentre ci sentiamo improvvisamente un gruppo di ridicole tardone e il retinolo sulle nostre facce si sgretola per reazione, in preda allo stress post traumatico vengo assalita da un ricordo ugualmente doloroso: estate 2022, sono a Napoli a un altro addio al nubilato molto meno sobrio (magliette coordinate, uomini nudi, degustazione di frittatine di pasta). In una discoteca all’aperto frequentata all’80 per cento da maschi sotto i 23 anni noi, diverso gruppo di femmine trentaqualcosenni, balliamo (male) in un aiuola appartata, perché la bolgia a trent’anni ci fa schifo e abbiamo la pressione troppo bassa per stare in pista. Con la coda dell’occhio scorgo un under 23 che ci filma col cellulare, tipo «ma guarda ‘ste vecchie nell’aiuola che buffe». Il suo amico intercetta il mio sguardo e mi fa «perché quella ha il vestito che mia nonna usa per friggere le polpette?» indicando la sposa di cotone vestita. Retinolo sgretolato, ce ne andiamo a casa. 

L’eterna adolescenza

Per fortuna ci viene in aiuto Guia Soncini, che nel suo ultimo libro Questi sono i 50 (Marsilio), fa ordine tra una lunga serie di questioni contemporanee legate all’età e alla vecchiaia, reale o percepita, ridimensionando le nostre paranoie cretine. Soncini, che scrive talmente bene che potrebbe sempre convincermi di qualsiasi cosa (e spesso lo fa), spiega che l’età adulta è finita e che la sua generazione (quella dei cinquantenni, appunto) incarna appieno la regressione collettiva a un’adolescenza senza limiti anagrafici. Ma lei si ricorda tutto: si ricorda com’era crescere con genitori che facevano i genitori e nonne che mettevano la dentiera nel bicchiere a sessant’anni, mentre le sessantenni di adesso si affannano a rimanere piacenti per sempre (quanto ha ragione, ho pensato qualche settimana fa davanti alla copertina di Sports Illustrated, una rivista su cui storicamente campeggiano le strafighe, dedicata a una Martha Stewart in costume da bagno all’età di mia nonna, pure lei del ‘41, e di nuovo alla notizia di Al Pacino che diventa padre a 83 anni, confermando che anche per certi uomini è difficile appendere il cazzo al chiodo. Chiedo scusa per la mancanza di varietà, ma torniamo a Billy Crystal e a quella battuta su Charlie Chaplin che non riusciva a tenere in braccio i figli).

Si ricorda di quando ci si annoiava e si leggeva Guerra e pace perché non c’era nient’altro da fare e di quanto freddo faceva negli anni Ottanta. Si ricorda di quando i biglietti aerei li facevi nelle agenzie di viaggio e bambini e adulti non guardavano gli stessi film, non andavano agli stessi concerti, a malapena sapevano gli uni dell'esistenza degli altri. 

Ma non c’è nessuna nostalgia per i bei tempi andati, non si stava meglio quando si stava peggio. Secondo Soncini viviamo nel migliore dei mondi possibili, checché ne pensino i “puccettoni di mamma”, che vengono cresciuti puccettoni da genitori più impegnati a sposare le loro istanze e sembrare sul pezzo che a fare gli adulti che spiegano come funziona il mondo. Così siamo arrivati a vivere in un presente assoluto in cui regna sovrano il Grande Indifferenziato. Qui ci finisce tutto, si mescola tutto: genitori e figli, vecchio e nuovo, traumi permanenti e ginocchia sbucciate, i Lùnapop e il Quartetto Cetra. I cinquanta, che almeno in linea teorica rappresentano l’età adulta, per Soncini invece sono un traguardo cui aspirare, un lusso, il momento in cui finalmente si dovrebbe capire qualcosa, non una condanna a morte. «Il vero dualismo non è tra invecchiare e morire: è tra crescere e no». 

© Riproduzione riservata