- Tutte le cose belle finiscono. L’amore finisce, i massaggi finiscono, e ora ci tocca pure andare avanti senza la prospettiva di una nuova stagione di Succession o della Fantastica signora Maisel
- Succession, è finita per sempre alla quarta stagione, dimostrando non solo che quelli bravi sanno quando fermarsi, ma anche che l’aggettivo “shakespeariano”, usato senza parsimonia per descriverla, non le è stato appiccicato addosso a sproposito.
- Con la saga dei Roy, gli anni Sessanta pieni di ottimismo della signora Maisel hanno ben poco a che fare, ma entrambi i protagonisti hanno optato per essere i migliori al mondo e non i migliori a casa loro
Tutte le cose belle finiscono. L’amore finisce, i massaggi finiscono, e ora ci tocca pure andare avanti senza la prospettiva di una nuova stagione di Succession o della Fantastica signora Maisel. Questa settimana, non senza rammarico, ho dovuto archiviare entrambe le serie e resto così orfana di due delle cose migliori che siano state fatte per la tv e le piattaforme di streaming, non solo negli ultimi tempi.
Succession, perfetto dramma un po’ commedia sulle guerre fratricide della famiglia Roy (che in origine trae blanda ispirazione dalle vicende dei Murdoch e di altre due dinastie, Redstone e Maxwell, come ha raccontato il creatore Jesse Armstrong al Guardian qualche giorno fa), è finita per sempre alla quarta stagione, dimostrando non solo che quelli bravi sanno quando fermarsi – ovvero al culmine della figaggine, allo zenit della perfezione – ma anche che l’aggettivo “shakespeariano”, che è stato usato senza parsimonia negli ultimi anni per descriverla, non le è stato appiccicato addosso a sproposito. La puntata finale di Succession, un’ora e mezza di groppo in gola e culo strettissimo che sapevamo avrebbe chiuso questa saga famigliare con la nomina dell’erede al trono dell’impero dei media dei Roy, ce l’ha spoilerato Re Lear 400 anni fa.
Il padre ingombrante e crudele
Succession riesce a fare molte cose difficili insieme, non ultima intrattenerci per 39 episodi con giochi di potere tra azionisti, consigli di amministrazione, cessioni di quote, e altri espedienti noiosissimi che diventano oltremodo avvincenti se mescolati a pornografia immobiliare, vacanze su barche abbastanza grandi da avere una pista d’atterraggio per gli elicotteri, ma soprattutto ai drammi esistenziali dei quattro fratelli, quattro anime in pena (chi più chi meno) devastate dalla ricerca ossessiva e infinita dell’approvazione di un genitore ingombrante e crudele (Logan Roy, interpretato da un Brian Cox irresistibile), bambini perenni che anche davanti al fantasma del padre continuano a gridare “guarda papà, senza mani!” senza ricevere indietro la minima gratificazione mai. Così ci ritroviamo a tifare per l’uno o per l’altro, dimenticandoci che stiamo compatendo persone orribili, che gli stiamo augurando ogni bene, che ci stiamo commuovendo per le sorti di quattro miliardari fuori dal mondo che usano il loro potere per far eleggere un presidente degli Stati Uniti filo-nazista.
Anche in questo Jesse Armstrong e gli altri autori di Succession sono i migliori, nel renderci comprensibili e umane e condivisibili le smanie di potere di quattro rampolli che pur potendo non fare niente per il resto della vita (loro e di diverse generazioni a venire) si accapigliano per aggiudicarsi un ruolo scomodissimo e pieno di responsabilità per cui non sono tagliati, all’ombra dell’uomo che l’ha creato e presidiato per decenni.
Comprate un’isola, andate in vacanza, viene da urlare al televisore ogni tanto mentre loro si straziano nella propria inadeguatezza. (Va detto che io sono quella persona che quando divide le cose a metà tiene sempre per sé la parte un po’ più piccola, e questo è tutto quel che ho da dire sulla mia sete di potere e sulla mia comprensione dello stesso).
Più ci avviciniamo alla fine più i fratelli Roy sono patetici, meschini e irrimediabilmente destinati a fallire (pronto, Re Lear?), ma come dice il più patetico dei quattro, Kendall, nell’ultima puntata: «cunt is as cunt does», stronzo è chi lo stronzo fa. Ci troviamo in un mondo in cui gli stronzi vincono e anche se tutti e quattro, più o meno dichiaratamente, ci provano a essere stronzi come il padre, a occupare lo stesso posto a tavola, a credere di poter acquisire lo stesso peso, a vincere, nessuno di loro può ambire alle vette di Logan Roy, che l’epica dello stronzo se l’è guadagnata venendo dal nulla (come ricorda il fratello al funerale raccontando il loro viaggio in nave verso l’America e della sorella morta di polio) e che nel corso di quattro stagioni abbiamo visto in varie declinazioni di spregevolezza e di rispettabilità.
Nell’ultima continua a umiliare i figli (nati invece col sedere nel burro) anche dalla tomba e non si saprà mai a chi di loro volesse lasciare la baracca il vecchio bastardo, chi amasse di più. La risposta a entrambe le domande probabilmente è “nessuno”. «Vi voglio bene, ma non siete persone serie», dice il giorno prima di morire.
L’unica morale
In Succession non ci sono morali e non esistono i buoni. Sono tutti spregevoli, che è come dire che nessuno lo è. Gli outsider, più dei discendenti di sangue, si aggirano col coltello fra i denti e alla fine trionfano: il servilissimo genero Tom, certo, che con Logan se non altro condivide l’atavico bisogno di riscatto. Ma anche Willa, la escort dalle ambizioni teatrali che Connor, il fratello scemo, ingaggia fino a renderla sua moglie, che si aggiudica la casa del suocero morto e si accinge a sedersi comoda sul suo trono, un divano muccato.
Niente a che vedere con l’universo della signora Maisel, dove invece sono tutte brave persone, persino gli scagnozzi della mafia. Il marito adultero si redime e diventa l’uomo ideale, i genitori conservatori si ricredono fino a radicalizzarsi in direzione opposta, il maschilismo e il razzismo sono cancellati dagli anni Sessanta. Il bene trionfa, il talento viene premiato e nella quinta e ultima stagione ci viene detto con una serie di flash forward che attraversano vari decenni che andrà tutto bene: Midge Maisel sarà la star mondiale della stand up comedy che si merita di essere.
Al di là della newyorkesità lussureggiante, degli attori pazzeschi e di una scrittura stratosferica (qui merito della geniale Amy Sherman-Palladino, già creatrice di Gilmore Girls, che sembra un po’ un Woody Allen sotto ecstasy), La fantastica signora Maisel non condivide molto con Succession. Ma per il bene di questo articolo, a cui voglio dare almeno una parvenza di coesione, ci tengo a segnalare solo un altro punto di contatto fra le due, che oltre ad essere molto vicine nello scaffale del mio cuore e ad averci lasciato negli stessi giorni, si parlano anche su un altro piano: quello dei cattivi genitori. Perché anche se Maisel ci distrae con le gonne a ruota e i colori pastello e le carte da parati e la chinoiserie, se guardiamo bene Midge piace a tutti tranne che ai suoi figli, un’altra cosa che scopriamo dai salti avanti nel tempo dell’ultima stagione.
Successo e famiglia a quanto pare non si mischiano tanto bene, l’avevamo già imparato da Logan Roy, l’avevamo già imparato da Shakespeare. Una scissione che mi fa pensare a quella scena di C’eravamo tanto amati in cui Gassman chiede alla Sandrelli: «sceglieremo di essere onesti o felici?».
Se qui essere felici significa avere successo ed essere onesti significa essere dei buoni genitori, Logan Roy e Midge Maisel si sono risposti senza indugio: hanno preferito essere i migliori nel mondo, piuttosto che i migliori a casa propria. Il che non costituisce nessuna lezione, neanche di femminismo, merito che si tende invece ad attribuire al personaggio della signora Maisel (che bello sarà quando finalmente potremo guardare storie di donne senza apporvi la targhetta “storia di donna”), ma rappresenta semplicemente un ottimo materiale narrativo. Quindi godiamone tutti e viva gli stronzi.
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