«La malvagità serve al mondo intero» canta Colapesce sui titoli di coda di Iddu, terzo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Uno spiazzante ritornello dolceamaro che chiarisce le ragioni dell’incredibile latitanza durata tre decenni di Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino d’Italia.

Come affrontare un episodio così insensato della storia italiana se non attraverso l’arma del grottesco? Una scommessa vinta per i due autori siciliani che insieme a due fuoriclasse come Elio Germano e Toni Servillo giocano con i generi cinematografici sulla scivolosa corda del tragicomico.

Sarà per questo che il film, in sala dal 10 ottobre, non ha ricevuto finanziamenti pubblici?

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Perché una trilogia sulla mafia, per non cadere nel silenzio, nell'omertà?

Antonio Piazza: Sì, la scelta è quella di continuare a porsi delle domande, avere sempre uno sguardo critico per combattere la rimozione della realtà. La latitanza trentennale di Matteo Messina Denaro è senza alcun dubbio una delle pagine più nere della nostra storia repubblicana e, come altre pagine oscure italiane, è probabilmente destinata a rimanere senza verità. È vero che dopo il suo arresto sono venute fuori tante notizie che hanno permesso l’arresto di fiancheggiatori: autisti, vivandieri o il suo medico, ma non sono certo queste figure che hanno consentito che la sua latitanza durasse così a lungo. È evidente che questa storia incrocia altri mondi di servitori infedeli dello Stato… politici, imprenditori.

Fabio Grassadonia: Con la nostra trilogia abbiamo provato a raccontare alcune esperienze di vita che abbiamo vissuto da siciliani cresciuti negli anni 80-90. La scommessa era anche quella di declinare quel periodo complicato attraverso generi cinematografici diversi. Facendo ricerche su Matteo Messina Denaro è emerso un mondo insensato, tragico e ridicolo, e la dimensione grottesca si è rivelata la chiave narrativa che cercavamo per il nostro terzo capitolo sulla mafia.

Quanto è importante umanizzare la figura del mafioso, ricordare che è un “mostro” che comunque ci può assomigliare?

F.G.: Per noi è fondamentale, da narratori non possiamo approcciarci a fatti e personaggi reali con un pregiudizio o un atteggiamento manicheo in cui si è o buoni o cattivi. Denaro è particolarmente interessante perché è molto diverso dalle figure dei mafiosi corleonesi tradizionali. Era un uomo intelligente con una vita e frequentazioni borghesi, ma anche se è diventato un grande lettore e un appassionato di cinema durante la sua latitanza, era un narciso patologico totalmente plasmato da quella figura di mafioso ultra ortodosso che era suo padre.

A.P.: Va ricordato quello che diceva Giovanni Falcone : attenzione a chiamarli mostri, a usare termini come cancro o come piovra, perché questi signori ci assomigliano. Matteo Messina Denaro ne è l’esempio perfetto, il suo essere diverso dalla figura del brutale assassino corleonese, le sue abitudini e le sue frequentazioni rendono la sua personalità ancora più disturbante… non bisogna dimenticare che è era in prima linea nella strategia stragista di attacco allo Stato degli anni ‘90.

Vi sorprende che Salvatore Vaccarino, figlio dell'ex sindaco di Castelvetrano, abbia rifiutato così sfacciatamente di proiettare il vostro film al cinema Marconi? Pare che al suo posto ci sarà il docufilm "Falcone e Borsellino, il fuoco della memoria".

F.G.: No, non ci sorprende… il proprietario di un cinema ha tutto il diritto di scegliere cosa vuole proiettare nella sua sala. Sappiamo che il sindaco Giovanni Lentini ha deciso di proiettare Iddu in un teatro. Intanto le proiezioni previste al cinema di Mazara vicino a Castelvetrano, sono già sold out e ringraziamo chi farà chilometri per vedere il nostro film.

In questo film si scopre che la mafia, oltre a far scorrere sangue, fa scorrere litri di inchiostro con i pizzini. Che cosa sono? Armi di potere, di scambio?

A.P.: I pizzini sono un sistema di scambio tra mafiosi, bigliettini scritti, spesso in codice, per dare informazioni o impartire direttive, uno strumento arcaico di comunicazione che però torna utile nell'epoca delle intercettazioni e della tecnologia. Nei pizzini di Denaro ci ha colpito la sua capacità di variare i toni e lo stile rispetto al suo interlocutore. La sua necessità di comunicare con il mondo durante la latitanza lo costringeva a scriverne centinaia, trasformandolo in uno scrittore epistolare. Chissà quanto le sue letture avranno arricchito la sua lingua? Pare che abbiano ritrovato nel suo covo libri di Baudelaire, Vargas Llosa o anche Dostoevskij. Hanno scoperto anche 212 DVD tra cui film di Antonioni, Coppola o anche di Rocco Papaleo, ah! e tutta la prima stagione di Sex and the City. Purtroppo queste letture, visioni e scritti non hanno contribuito a umanizzarlo, anzi non hanno fatto altro che nutrire il suo ego ipertrofico.

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Una latitanza che dura quasi trent'anni, non può essere che grottesca, per questo avete usato l'arma della farsa e del cinema di genere per raccontarla?

F.G.: Una tragedia che continua a ripetersi inesorabilmente nel tempo e nella forma non può che diventare ridicola.

A.P.: Sembra che abbiamo forzato la mano usando il cinema di genere ma non è così, tutto quello che è raccontato nel film è realmente accaduto. È ovvio che ci siamo presi delle libertà ma la componente tragica e allo stesso tempo ridicola del mondo che volteggiava attorno a Messina Denaro è tale che ci sembrava naturale ritrarla nel film, anche il suo iper narcisismo scollegato dalla realtà lo rende una figura grottesca.

F.G.: Sì, lui era il perfetto reagente che porta a galla quello che si cela nel fondo di una palude.

Tra i tre generi che avete scelto per raccontare la mafia, qual è quello in cui vi siete sentiti più a vostro agio? Il noir di Salvo, la favola horror di Sicilian Ghost Story o il grottesco come in questo caso?

F.G.: È stata un’evoluzione: per Sicilian Ghost Story, mettevamo mano a un dolore profondo che ci portavamo dietro da anni, sentivamo il bisogno di rendere un omaggio d'amore al piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e ucciso dalla mafia, attraverso il linguaggio della favola nera. In Iddu c'era la spinta corrosiva di raccontare gli aspetti paradossali di un mondo bloccato all'interno di una circolarità maligna.

A.P.: È un universo in cui, contrariamente ai nostri film precedenti, non c’è nessuna salvezza possibile.

F.G.: Tutti i protagonisti sono già fantasmi, morti che camminano senza saperlo.

Quali sono i film che vi hanno dato voglia di diventare registi?

A.P.: In questo siamo piuttosto diversi. Anche se ormai il suo nome è tabù, sono un appassionato di Roman Polanski, è un maestro nel raccontare il lato oscuro e perturbante della vita. Film come Rosemary’s baby o Chinatown continuano a darmi voglia di fare cinema. Anche nei suoi film più inquietanti c’è sempre un lato assurdo e tragicamente ironico.

F.G.: Sono cresciuto con i film di John Ford e Howard Hawks perché mio padre era appassionato di cinema classico americano. Ma è stata la scoperta del cinema di Michael Cimino e di Milos Forman a forgiare il mio desiderio profondo di fare cinema.

Lavorate in coppia, sperimentate il cinema di genere e continuate a raccontare la vostra Sicilia, vi sentite atipici nel panorama del cinema italiano?

A.P.: Sì, ma non ne soffriamo affatto, è solo una questione di posizionamento, non ci sentiamo mai al centro, ma piuttosto in periferia… quando ci chiamano al festival di Cannes o in concorso a Venezia è comunque sempre una sorpresa, anche se siamo al nostro terzo film.

F.G.: Non ci siamo mai sentiti vittime anzi…siamo stati fortunati, abbiamo iniziato con il compianto Massimo Cristaldi, un produttore che ci ha incoraggiato da subito, dandoci grande fiducia e libertà, poi abbiamo incontrato Nicola Giuliano della Indigo Film che ci ha messo nelle condizioni di lavoro ideali. Credo che il giorno in cui ci sentiremo figure centrali del cinema italiano cambieremo lavoro, la centralità è un concetto che ci respinge.

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