A Iddu, per imperscrutabili ragioni, non hanno concesso i finanziamenti selettivi del ministero. Li danno a film che qualcuno definirebbe impresentabili, e mi astengo dall’elencarli a scanso di querele. Antonio Piazza e Fabio Grassadonia hanno girato per sette settimane in Sicilia, ma dalla Sicilia Film Commission la Indigo, produzione indipendente, non ha avuto uno straccio di aiuto. È più vantaggioso supportare il cineturismo, quello dei panorami da cartolina e delle sceneggiature da strapazzo, che fanno male al cinema ma bene agli alberghi.

Iddu è stato l’ultimo, in ordine di apparizione, dei film italiani in concorso a Venezia 81, e mette insieme due pesi massimi, Elio Germano e Toni Servillo, anche se nella storia non incrociano mai i guantoni. Non è una storia da poco: stralcia un periodo della latitanza di Matteo Messina Denaro, anno 2004, partendo dal carteggio tra il latitante e l’ex sindaco di Castelvetrano, di cui era il figlioccio.

I “pizzini” di questo scambio epistolare sono singolarmente eloquenti, illuminano su ricordi familiari e insospettabili passatempi letterari e cinefili del boss trapanese di Cosa nostra che sarebbe stato catturato solo nel 2023.

Il carteggio ha colpito la fantasia dei due registi siciliani – uno dei pochi binomi inscindibili della nostra autorialità non generato dalla parentela – che ne hanno tratto il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 2013 con Salvo e proseguita nel 2017 con Sicilian Ghost Story. Senza far torto ai Festival italiani, va detto che è la Semaine de la Critique di Cannes ad averli scoperti e lanciati, premiando con Salvo un’opera prima che non aveva distribuzione e scegliendo il loro secondo film per l’apertura dell’edizione 2017. Se cogliete in queste note un lievissimo accento polemico, non è puramente casuale. Iddu esce con 01 Distribution il 10 ottobre.

Nel film c’è ancora e sempre Sicilia, ci sono quei lampi surreali che sono la cifra distintiva della coppia, ma il tono vira sulla commedia nera, sospesa fra tragedia e ridicolo. È la dinamica che si crea tra Toni Servillo-Catello Palumbo (nome fittizio di una figura reale), saltimbanco, parolaio, assediato dalla disperazione, maschera grottesca, e l’universo claustrofobico di Elio Germano-Messina Denaro, prigioniero della sua confortevole latitanza, dei suoi fantasmi e del suo narcisismo patologico. È Iddu, l’innominabile.

Nel copione le battute di Germano occuperanno sì e no tre paginette: parla coi gesti, con le espressioni, con un lavoro di sfumature che ispira paura ma lo rende anche familiare, cittadino di un paese in cui non è, col suo mostruoso corredo di sangue e di orrore, un corpo estraneo.

Fabio Grassadonia: «Dai pizzini emergeva una strana personalità di mafioso rispetto agli altri che conosciamo. Il rapporto con la lettura, ad esempio. A casa di Totò Riina puoi immaginare di trovare la Bibbia o i Beati Paoli. Qui invece trovi un uomo che si è imbattuto nei libri, fornitigli sicuramente dai suoi amici e complici borghesi. In casa aveva Baudelaire, Le notti bianche di Dostoevskij, la biografia di Agassi, tra gli altri. Letture che nutrivano il narcisismo ipertrofico di una personalità criminale. I pizzini rispecchiavano questo e il mondo grottesco che lo circondava». Ma è interessante la riflessione a più voci che a Venezia il film ha generato.

Elio Germano

Per Elio Germano Iddu racconta «tutto quello che non è la fascinazione, quel tessuto tragicamente ridicolo che è la vita di questi personaggi». Uno, chiuso in un appartamento, si lamenta «perché non c’è più qualità». L’altro, Catello Palumbo, si arrabatta per far dimenticare il suo passato, il malaffare che l’ha spedito in galera. «Sono tutti mediocri, esempi di bassezza umana: è la banalità del male, anche quando si sente invincibile». I registi hanno scavato nella storia privata di Messina Denaro, figlio perfetto in cui il padre aveva riconosciuto doti speciali, anche se non era il primogenito. È alle sue mani, nel film, che affida ‘u pupu, statua preziosa simbolo del potere del clan. Al figlio rimproverava solo di non aver messo su famiglia, una devianza dall’ortodossia patriarcale.

Ricorda Piazza che Falcone diceva: «Smettiamola di chiamarla Piovra, perché questi ci assomigliano». E questo – dice – è tragicamente vero per Messina Denaro: «Questo mostro criminale purtroppo ci assomiglia in certe abitudini, in certi atteggiamenti. È disturbante, ma bisogna uscire dallo stereotipo, entrare nella zona grigia». È una questione politica.

Sempre Germano: «Non possiamo continuare a guardare i mafiosi come qualcosa di “altro” da noi, così non si trovano gli strumenti per combatterli. È vitale imparare a riconoscere i meccanismi che portiamo anche dentro di noi, fare attenzione ai valori che cultura, giornali e governi trasmettono. Se i valori sono difesa di confini, patria e famiglia, esaltazione delle armi, del primatismo e del verticismo, privilegi da tutelare contro i cattivi che ce li tolgono, profitto a qualsiasi prezzo, ci avviciniamo pericolosamente a quelli che definiamo valori mafiosi». Anche la dilagante paura di parlare, sostiene, rimanda a quel mondo.

Toni Servillo

Ex sindaco, ex professore di provincia, ex amministratore inquisito, il Catello Palumbo di Toni Servillo cerca di tirarsi fuori dai guai finanziari patteggiando con i Servizi Segreti un percorso per avvicinare e catturare il latitante. Solo per un caso fortuito l’operazione fallisce. Per l’attore la sua «è una maschera italiana grottesca, ma la dimensione del ridicolo ispessisce quella del tragico».

Il gioco scenico però è il rimbalzo - che è un rispecchiamento - tra questa figura e quella di Fausto Russo Alesi, la controparte istituzionale che gioca il suo stesso gioco. È una sorta di seduzione a partire dai loro ruoli opposti. Servillo la vede come «un continuo mischiare le carte, un muoversi nel torbido». Le alte sfere dei Servizi adottano una strategia che le accomunano a quella miserabile da sottobosco del trafficone in bolletta. «È interessante che si riconoscano in questo gioco delle finzioni». 

È uno stile di racconto, quello di Piazza e di Grassadonia, che restando fedele alla loro storica passione civile non si appiattisce sulla realtà. Come in certa pittura, cerca di evidenziarla con un segno più spesso. In un triangolo dominato dai maschi, Barbora Bobulova e Antonia Truppo fanno sponda all’ordinaria amministrazione del latitante. ‘U pupu è uscito di scena, è diventato un bene pubblico da museo. Fosse così anche per il potere che simboleggiava.

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