- Il punto di riferimento storico di Vladimir Putin non sono sovrani come Pietro il Grande e Caterina, che hanno cercato di avvicinare la Russia all’Europa, ma il dispotismo reazionario di Nicola I.
- Un volume dello slavista Bengt Jangfeldt ricostruisce la genesi storica del rapporto conflittuale della Russia con il vecchio continente e la nascita del movimento slavofilo.
- Punto di arrivo di questo tensione è l’ideologica nazionalista basata sull’idea di unicità del popolo russo, il cui alfiere oggi è il filosofo Aleksandr Dugin
Quando ci si riferisce a Vladimir Putin come a un nuovo zar non bisogna dimenticare che i punti di riferimento non sono Pietro il Grande o Caterina. Non è il loro dispotismo illuminato ad attrarre Putin, ma il dispotismo reazionario di Nicola I. Pietro sognò di occidentalizzare la Russia e Caterina, nella sua ordinanza (in russo nakaz) del 1767, definì la Russia «un regno europeo», mentre Putin vede oggi nell’Europa liberaldemocratica un nemico da attaccare. Lo zar Vladimir è dunque più vicino a Nicola I, che sospese l’insegnamento della filosofia. La riscrittura distopica della storia nella Russia di Putin e l’asfissiante controllo sulla cultura hanno quindi un blasonato predecessore.
Durante il regno di Nicola I (1825-1855), che diceva di riconoscersi in un «Dio russo», la triade “ortodossia, autocrazia e popolo” divenne un programma di governo e il suo ministro dell’Istruzione, Sergej Uvarov, ne fu un fedele interprete. Si trattava di una alternativa reazionaria alla triade liberale “libertà, uguaglianza, fraternità”. Se guardiamo alla Russia di oggi, Uvarov appare un antesignano di Medinskij, il ministro della Cultura di Putin. La politica culturale di Medinskij limita infatti i finanziamenti statali alle iniziative che promuovono valori patriottici.
Europei o slavofili
Bengt Jangfeldt, slavista dell’Università di Stoccolma, con L’idea russa. Da Dostoevskij a Putin, pubblicato in Svezia nel 2017 (e proposto adesso in Italia da Neri Pozza), ci consente di comprendere quali siano le ragioni profonde che determinano gli orientamenti politici della Russia di Putin. Jangfeldt individua nella dimensione radicalmente duale la cifra essenziale della storia russa. Questa peculiarità ha impedito, a suo avviso, che potessero affermarsi posizioni moderate e possibili “terze vie” tra anarchia e dispotismo, e dopo la dissoluzione dell’Urss non è stato possibile adottare soluzioni politiche socialdemocratiche o liberali.
Il controverso rapporto della Russia con l’Europa, come dimostrano le difficoltà incontrate da Pietro il Grande e da Caterina quando tentarono di occidentalizzare il paese, si è riproposto nei nostri giorni con esiti drammatici. Il movimento slavofilo, che assunse la forma di un progetto politico durante la guerra di Crimea (1853-1856), contribuì a definire l’identità russa in contrapposizione all’Europa, immaginando che lo zar avrebbe dovuto estendere la sua egemonia spirituale e politica su tutto il mondo ortodosso, da Costantinopoli ai Balcani. Sul versante opposto vi erano gli “europei” che, come Turgenev, l’autore di Padri e figli, ritenevano, diversamente da Dostoevskij, che la Russia dovesse orientarsi verso i modelli universalistici e liberali dell’Occidente.
Dostoevskij era aspramente critico nei confronti dell’Europa. Nonostante ammettesse di subirne il fascino, non riusciva ad accettare il suo materialismo. Se i liberali erano poco sensibili alle teorie degli slavofili, alcuni socialisti, come Herzen, che viveva in esilio a Londra, le condividevano in parte. Si riconoscevano infatti nel modello della comunità di villaggio e nella concezione, diffusa tra gli slavofili, che il collettivismo, e non l’individualismo liberale, rappresentasse la dimensione autentica della Russia.
Le teorie eurasiste
Questi temi riemersero, in modi e forme diverse, in un momento in cui, dopo la caduta dell’URSS, i russi dovettero rielaborare una ideologia nazionale. Nel 1988, tre anni dopo la sua nomina a segretario del Pcus, Michail Gorbaciov dichiarava, in occasione delle celebrazioni dei mille anni della Russia, che il suo Paese era legato all’Europa dalla tradizione cristiana e poteva così sentirsi parte della «casa comune europea». Pochi anni dopo, nel 1991, la fine dell’Urss produsse mutamenti radicali, ma l’apertura verso modelli occidentali non godette di particolare consenso. Prevalse infatti la tendenza a contrapporre l’identità russa all’Europa.
In questo clima assunsero rilievo le posizioni dei nazionalisti e dei teorici dell’eurasismo. Emerse in particolare la figura dell’antropologo Lev Gumilëv, che, dopo aver subito più volte la deportazione, cominciò a essere apprezzato durante la perestrojka. Jangfeldt evidenzia come Gumilëv, riprendendo i temi che gli slavofili avevano affrontato negli anni Venti del Novecento e coniugandoli con le teorie dell’euroasismo, offrisse gli strumenti culturali per elaborare un’ideologia adeguata alle aspettative della Russia postsovietica. Tramontata la teologia politica marxista-leninista si avvertiva infatti la necessità di dar vita a un mito fondativo condiviso.
L’euroasismo accoglieva dagli slavofili l’idea dell’unicità russa, senza identificarla però con la tradizione slava. Riteneva infatti che il mondo russo rappresentasse una sintesi di popoli, come i mongoli, i turchi e gli ugro-finnici. I russi non sarebbero così né propriamente europei né asiatici, ma eurasiatici. Questa capacità dei russi di fondere i caratteri di diverse etnie faceva di loro, secondo Gumilëv, un superethnos. Questo concetto è stato nei nostri giorni pienamente accolto da Vladimir Medinskij, ministro della cultura dal 2012 al 2020, che ha rivendicato l’unicità del superethnos russo, e dallo stesso Putin, che ha più volte fatto riferimento alla «missione morale superiore» del suo popolo.
Gli eurasisti, come gli slavofili, ritenevano che il rapporto tra stato e chiesa dovesse assumere un carattere “sinfonico”, riprendendo la visione di Dostoevskij, secondo cui la missione della Russia coincide con l’ortodossia. Si richiamavano a un modello“ideocratico”, in cui si affermava una visione organica dello stato,e non vi era posto per l’individualismo liberale.
Al vertice era posta una ristretta elité, legittimata dalla volontà popolare. Alcuni eurasisti videro nello stalinismo un riflesso dell’ideocrazia. Oggi si riconoscerebbero probabilmente nella “democrazia illiberale” di Putin, in cui una ristretta elité, legittimata dal voto popolare, governa in modo antidemocratico.
Come dire che, dopo le elezioni, chi è chiamato a governare può esercitare il suo potere senza che i pesi e contrappesi dello stato di diritto possano limitarlo. Gli effetti di questo modo di concepire la politica sono ben visibili in tutti i settori della vita russa.
L’ideologo Dugin
Quando, nel 1999, Boris Eltsin pensò di introdurre una ideologia di stato per colmare il vuoto prodotto dall’implosione dell’apparato marxista-leninista, trovò una seria opposizione, dal momento che la Costituzione vietava che si potesse imporre una ideologia. Di fatto, però, solo una minoranza di russi si riconosceva nel liberalismo, mentre molti intellettuali, e la gente comune, erano fortemente attratti dall’ “idea russa”. Jangfeldt mette in luce in questo libro come il mito della superiorità russa riviva oggi nel patriottismo e nell’imperialismo postsovietico.
La risposta alle esigenze di Eltsin di elaborare una nuova ideologia venne da Aleksandr Dugin, scrive Jangfeldt, che facendosi alfiere dell’eurasismo, proclamò i suoi teorici, Trubeckoj e Savickij «i Marx ed Engels del movimento». Dugin era stato un dissidente negli anni Ottanta e si era avvicinato a posizioni nazionaliste fortemente critiche verso l’occidente. Assunto poi presso l’Accademia dello Stato maggiore come docente di geopolitica, aveva diffuso queste teorie presso gli ufficiali, fortemente ostili alla perestrojka. Dugin stesso commenta che quegli ufficiali, dopo la fine della guerra fredda, non avevano più un nemico da combattere e furono proprio quelle teorie a indicare il nemico che cercavano.
Nel 1993 Dugin aveva fondato con Limonov il partito nazionalbolscevico, in cui rivendicazioni nazionalistiche e sogni imperialistici si mescolavano confusamente con vaghi accenni al socialismo. Nell’armamentario ideologico di Dugin incontriamo Schmitt e Heidegger, Guénon ed Evola, de Benoist e Negri, ma anche Gramsci, utilizzati sempre per criticare radicalmente l’Europa illuminista e liberale. Jangfeldt fa rilevare come Dugin non esorti esplicitamente alla guerra, ma spinga piuttosto a destabilizzare la politica interna degli stati nemici, sostenendo i gruppi antagonisti. In questo quadro Dugin prevedeva, come poi è accaduto, che anche il petrolio e il gas avrebbero potuto essere usati come armi contro l’occidente.
Nei suoi piani imperialistici e fantapolitici Russia e Germania dovrebbero esercitare la loro egemonia sull’intera Europa, dividendosi le sfere d’influenza. Ulteriori accordi con Tokyo e con Teheran dovrebbero in seguito garantire alla Russia un controllo totale, entro una visione metafisica che vede nell’incontro tra stato e chiesa una perfetta “sinfonia”. Rispetto a questa concezione “sinfonica” l’Occidente appare come caos e perdizione e il patriarca Kirill può anche benedire la missione metafisica della crociata di Putin contro l’Europa corrotta.
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