Sarebbe bello vivere solo di inizi. Sarebbe delizioso, a volte, smettere di essere umani.

Avrebbe il sapore di quel gelato fragola e cioccolato gustato nell’infanzia, fatto solo di polverine, che non ha visto una fragola o una fava di cacao neanche per scherzo. Quell’abbinamento inelegante, massima soddisfazione per papille gustative novizie che dell’eleganza si disinteressano.

Noi però siamo umani e non viviamo solo di inizi, cresciamo adattando il gusto a necessità e contingenze, ci nutriamo troppo o troppo poco (raramente, il giusto). Se siamo abbastanza fortunati arriviamo a morire da persone invecchiate. Potremmo avere fame di tutto quel che non abbiamo avuto o abbiamo rifiutato, potremmo trovarci alle prese con corpi inappetenti o incapaci di nutrizione orale, senza denti o affetti da disfagia. Potremmo volere di nuovo quel gelato fragola e cioccolato e, possibilmente, che nessuno ce lo neghi. In vecchiaia, così come nell’infanzia, non è possibile assecondare ogni voglia. È invece lecito desiderare che alle nostre volontà alimentari si presti almeno ascolto.

Realtà e finzione

Ricordo uno specchio che riflette l’immagine di una donna molto ben vestita. Ha una piega perfetta, si sta truccando con cura. È anziana e sembra si stia preparando per un appuntamento galante. Sorride a se stessa nella penombra e con la mano porta alla bocca un sontuoso pasticcino, poi un altro e un altro ancora. La camera trabocca di dolci e torte di ogni foggia. Affetta da diabete mellito, ne mangerà sino a morire.

Lo ricordo così come ricordo un letto matrimoniale sfatto in una casa popolare di una grande città. Le ultime parole che una donna anziana e morente sente pronunciare dal marito sono «adesso ti preparo una camomilla», un attimo dopo l’unico braccio ancora funzionante si scioglie dal collo di lui e cade abbandonato. «Adesso ti preparo una camomilla» è una frase che può sembrare strana da dire a una donna che sta spirando, come se la camomilla fosse la soluzione alla morte, un filtro magico e forse lo è davvero. È una promessa di continuità della cura.

Anni dopo, in una cittadina ben più piccola e verdeggiante, una donna molto malata racconta che il medico curante le ha detto di farsi preparare quello che le va e che, in quel momento, le piace. Molte cose non le piacciono più. Sembra una prescrizione farmacologica: fatti preparare il cibo che desideri. Ha scelto le polpette. Tra qualche mese morirà. È la stessa persona che tempo prima ha assistito un uomo che in un letto d’ospedale mangiava pasta al pomodoro e minestrina con tanto parmigiano come fossero piatti gourmet. Saranno gli ultimi pasti.

Non tutti hanno l’occasione di consumarli, o ricordarli. Come l’anziana in demenza avanzata, semi-cosciente, che muore in una rsa senza passare da un pasto perché viene alimentata artificialmente da due anni. I medici dicevano che aveva problemi di deglutizione. La verità è che non avevano abbastanza tempo e personale per far imboccare le pazienti più difficili con la calma dovuta. Ma poco prima del ricovero ospedaliero, e del successivo trasferimento in una struttura, la donna anziana e semi-cosciente era assistita in casa da chi c’era e da chi poteva dare una mano. Un’amica di famiglia, quando veniva la stagione delle fragole (quelle vere) usava dire: le ho passato una fettina di fragola sulla bocca perché così sente almeno il fresco, pora la me stela («povera la mia stella»).

Poi c’è una signora con molti anni sulle spalle, dotata di pochissima mobilità e moltissima lucidità, che apprezza il cibo ma necessita di particolari accortezze. La donna che la assiste in casa prepara microscopiche porzioni di patate lesse o arrosto, cucchiaini di risotto non al dente, cubetti di anguria matura e morbidissimi plumcake fatti in casa senza lattosio. Cibi freschi conservati in tupperware lillipuziani, pensati perché appaghino il gusto senza fare male.

E c’è anche un’altra donna, una pensionata di una cittadina trevigiana, che per restare attiva ha scelto proprio di portare pasti appena cucinati ad anziani soli.

Sono tutte storie vere meno una. La prima e la più eclatante è una scena piuttosto nota del film Mine vaganti di Ferzan Ozpetek (2010). Si tratta di uno dei passaggi finali, dove Ilaria Occhini interpreta la capostipite di una famiglia salentina di estrazione borghese e stampo conservatore. Il personaggio di Occhini è inserito, sì, ma di fatto così strutturalmente libero da meritare – appunto – il soprannome “mina vagante”. Con l’intento di risolvere una faida famigliare, concluderà la sua esistenza attraverso un atto di suprema ribellione alimentare.

Le altre storie sono invece testimonianze raccolte in conversazioni private o esperienze vissute in ambito famigliare. Sono storie di alimentazione in terza e quarta età, e storie di alimentazione negli ultimi giorni di vita. Le due dimensioni, ben distinte, non vanno confuse. Sovrapporle significherebbe commettere l’errore purtroppo ricorrente di associare età anagrafica avanzata e momento del morire.

Sono fasi drasticamente diverse dell’esistenza con bisogni e necessità diverse. Associarle è solo un facile espediente per relegare anziani e malati alla marginalizzazione cui già sono relegate le persone morenti. Tra le storie narrate, estrapoliamo tre temi relativi a tre momenti distinti: il cibo in vecchiaia, la nutrizione artificiale, gli ultimi momenti della vita.

C’è un pasto per te

Una donna che vive nella provincia nordestina dopo venticinque anni di lavoro e vita attiva, al raggiungimento dell’agognata pensione, formula un pensiero non scontato: e adesso, che cosa faccio tutto il giorno?

La risposta arriva con dei furgoncini carichi di pasti appena preparati. Nella sua città un ente con molti volontari ogni giorno porta cento pasti ad anziani soli e in difficoltà. I prezzi sono popolari e le persone meno abbienti sono supportate da un finanziamento comunale.

Ma il cibo non è mai una mera questione meccanica, e il servizio impagabile è un altro.

Dice lei: «Non sai quante persone anziane aspettano che gli porti il pranzo per fare due parole». Hanno bisogno di dirti che sono soli e stanchi, di ricevere un saluto e rispondere a domande che indichino interesse nei loro confronti. Persone in case svuotate che, spesso e volentieri sopo la vedovanza, si trovano perse.

Così, gli gnocchi del giovedì e le lasagne della domenica diventano una ricorrenza da attendere e festeggiare; mentre la signora che non può mangiare i pomodori si sentirà pienamente considerata se verranno espunti dal suo pasto, e il signore con difficoltà di masticazione saprà che qualcuno si è ricordato di lui perché la sua carne arriva già tagliata in piccoli pezzi.

Nutrizione artificiale

Cosa accade se nelle ultime fasi della vita, magari a causa di una patologia degenerativa, il cibo diventa solo un processo meccanico? Se gli ultimi anni sono un tema spesso marginalizzato nonostante l’innalzarsi dell’aspettativa di vita media, gli ultimi giorni sono ancora un vero e proprio tabù. In entrambi i casi il processo di rimozione dal dibattito pubblico e privato riguarda tutti gli aspetti di queste fasi dell’esistenza, alimentazione compresa.

C’è chi arriverà agli ultimi giorni in autonomia, chi avrà bisogno di essere imboccato e chi si troverà in una situazione patologica tale da non potersi alimentare. In questi casi capita che il cibo diventi una soluzione contenuta in una sacca e somministrata per via enterale, tramite peg, ovvero un tubo collegato con lo stomaco e l’intestino. Nel caso di pazienti incoscienti, semi-coscienti, non lucidi o non verbali, stabilire se queste persone desiderino vivere l’ultima fase della loro esistenza a queste condizioni è complesso, per non dire impossibile.

Per questo è importante riflettere per tempo sulle nostre volontà e su quelle di chi ci è caro. È un pensiero che spaventa, ma allontanarlo ci ha condotti a delegare i nostri ultimi respiri e pasti a mani altrui. È anche così – non volendo pensare, lasciando che fosse – che la nostra autodeterminazione alimentare è diventata un terreno di scontro, il campo di battaglia su cui si sfidano poteri più grandi di noi per spartirsi corpi e anime.

Cosa ne è degli ultimi pasti? Fino a che punto possiamo autodeterminarci se non siamo autosufficienti? Saremmo disposti a farci nutrire e idratare artificialmente finché il corpo regge e senza la possibilità di alzare la mano e dire “adesso basta”? Non esistono risposte giuste o sbagliate. Esistono (dovrebbero esistere) solo risposte date in coscienza, frutto di un percorso di informazione e riflessione libere da condizionamenti.

Terminal lucidity

Quando ci relazioniamo alla dimensione del morire abbiamo a che fare con le pochissime forze e il pochissimo tempo di chi sta finendo la sua esistenza. A volte accade che queste forza abbiano un incremento tanto improvviso quanto breve. Non capita sempre e non capita a tutti, ma capita ad abbastanza persone perché sia un fenomeno cui è stato dato un nome: terminal lucidity.

Gli studi in tema di terminal lucidity sono pochi e le certezze ancora meno. Quello che conta è, ancora una volta, ricevere informazioni e così acquisire consapevolezza e capacità di reazione il più possibile adeguata, nel senso di rispettosa della persona morente.

Può accadere che a ridosso del decesso la persona morente sperimenti dei momenti, minuti, ore, anche un giorno intero, di rinnovata energia e con questa di incremento dell’appetito, desiderio dei suoi piatti o sapori preferiti, desiderio di parlare, comunicare, avere visite, ricordare.

Così una persona allo stremo delle forze vorrà mangiare con avidità una minestrina con tanto parmigiano e magari trasmettere i suoi ultimi ricordi. Un rischio ricorrente è quello di interpretare questo incremento di energia come sintomo di guarigione.

Essere informati è importante e, nelle situazioni più intense della vita come la sua fine, è fondamentale. In questo caso può essere fondamentale per assecondare, dove possibile, i desideri di ascolto come quelli alimentari del morente, senza imporre privazioni più adatte a un convalescente con prospettive ben diverse; per dare valore alla comunicazione come al cibo, aspetti fondanti dell’intera vita di qualsiasi essere vivente, che non cessano di essere tali nelle ultime occasioni.

Strumento di relazione

Il morire è un processo di transizione, il lutto è un processo trasformativo, e in questi passaggi enormi il cibo ci accompagna sia in presenza che in assenza. Accade quando lo desideriamo e quando lo respingiamo. Quando non abbiamo le forze di prepararlo e quando qualcuno lo fa per noi. Quando è necessario o innecessario a chi sta morendo e quando serve per far tirare avanti, nonostante l’immensa stanchezza, chi sta accudendo.

Quando pensiamo all’importanza del cibo per chi non è autonomo, per chi è in balia dell’assistenza altrui dovremmo sempre, nell’ottica della costruzione di un sistema armonico e giusto, pensare anche all’alimentazione di chi assiste e, assistendo, difficilmente avrà il tempo, la possibilità e le energie per prendersi cura di sé. A ben guardare questo vale non solo per i caregiver di persone anziane, malate o morenti, ma anche per le madri di neonati e bambini molto piccoli.

Fino a che il compito dell’accudimento non ci coinvolge in prima persona tendiamo a non porci mai alcune domande molto basiche: come fanno queste persone trasformate in braccia del welfare a sostentarsi adeguatamente nelle loro funzioni fisiologiche? Come possono prepararsi del cibo sano in orari sani? La risposta molto spesso è: non lo fanno. Così siamo circondati da donne e uomini che curano piccoli e anziani riducendosi allo stremo delle forze fisiche e mentali, intente e intenti in un processo di erosione della loro stessa salute, incapaci di esprimere le proprie esigenze per inadeguatezze del sistema e sensi di colpa introiettati.

Ascolto reciproco, rispetto delle volontà, costruzione e ricostruzione di reti sociali, monitoraggio delle forze e delle necessità sia proprie che altrui sono elementi essenziali per vivere in pienezza e in libertà gli ultimi anni e gli ultimi momenti della vita.

In quest’ottica il cibo sta al centro della tavola dell’umana esistenza dal suo inizio alla sua fine, non solo come benzina del corpo, ma come strumento del sistema di relazione sociale, dell’immateriale sentimento del vivere e dell’amare, o anche solo dell’accettare di accudire, chi se ne va.

* Il titolo fa riferimento al banchetto finale del Don Giovanni e al verso “Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste”

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