- Il regista Spike Lee, primo presidente nero della giuria che il 17 luglio assegnerà la Palma d’oro, incarna lo spirito di lotta e di euforia di questo strano Festival di Cannes segnato dalla pandemia.
- E da una strana coincidenza: gli azzurri in campo per le finali di Wembley e Wimbledon proprio il giorno della première di Nanni Moretti, unico regista italiano in concorso con Tre piani. Accolto con undici minuti di applausi.
- All’inaugurazione sembrava quasi che la pandemia fosse stata solo un film: assembramenti al limite dell’imprudenza, parata di stelle del cielo hollywoodiano invitate dal delegato generale della rassegna, Thierry Frémaux, per riportare il festival alla sua grandeur.
Lo si nota di più se parla di razzismo o se balla sul tappeto rosso in smoking color fucsia? Il regista Spike Lee, primo presidente nero della giuria che il 17 luglio assegnerà la Palma d’oro, incarna lo spirito di lotta e di euforia di questo strano Festival di Cannes segnato dalla pandemia. E da una strana coincidenza: gli azzurri in campo per le finali di Wembley e Wimbledon proprio il giorno della première di Nanni Moretti, unico regista italiano in concorso con Tre piani. «Mi avete attribuito qualità profetiche... ecco, ho lavorato a questo film con una visione: sapevo che l’11 luglio 2021 l’Italia se la sarebbe giocata su tre piani: tennistico, calcistico e cinematografico» ha scherzato il regista. La sua ironia, stavolta, è rimasta fuori dal copione.
Accolto con undici minuti di applausi alla proiezione ma con recensioni tiepide della critica straniera, questo è il primo titolo di Nanni tratto da un soggetto altrui – l’omonimo romanzo di Eshkol Nevo, Neri Pozza – e uno dei pochi senza quelle battute folgoranti che poi entrano nel nostro lessico e che, anche all’estero, sono considerate la sua cifra insieme alle riflessioni sociali.
A vent’anni dalla Palma d’oro per La stanza del figlio e a dieci da Habemus Papam, che ha preceduto le dimissioni di Ratzinger nel 2013, Moretti è tornato però con una storia intensa che qualcosa di profetico ce l’ha. Girato prima del Covid, racconta gli abitanti di un condominio chiusi in ossessioni e scelte pesanti che finiscono per sottolineare la necessità di uscire dal guscio e aprirsi agli altri. La scena di una milonga ballata per strada da decine di coppie diventa un richiamo, «un inno alla vita», dice il regista, più sentito che mai dopo mesi di isolamento. Piacerà alla giuria?
Film francesi
Di sicuro piacciono ai francesi, in concorso e non, i film che riportano alla realtà di chi lavora e chi no, di chi affianca padri o figli malati, di chi si ama o si separa. Juliette Binoche ha fatto di tutto per mettersi in panni più sfortunati dei suoi. Fa effetto vederla pulire i cessi dei traghetti, struccata e stanca, insieme alle addette alle pulizie che hanno quattro minuti di tempo a cabina. Ha fortemente voluto lei Ouistreham – Between Two Worlds, tratto dal libro-inchiesta di Florence Aubenas. Ha chiamato a sceneggiarlo e dirigerlo lo scrittore Emmanuel Carrère e a interpretarlo vere lavoratrici.
«Non sapevo cosa si prova a guadagnare così poco con le mani nella merda, letteralmente. Queste donne mi hanno insegnato che anche nel profondo della miseria c'è bisogno di amicizia, di scherzare. Abbiamo riso molto insieme» ha detto, bloccata su un set negli Stati Uniti. A presentarsi con Carrère nella sezione della Quinzaine sono andate le attrici per caso, tra cui Emily Madeleine: «Non mi sono mai sentita tanto a mio agio».
Ma Carrère, lontano dallo stereotipo dell’intellettuale impegnato, sottolinea la distanza tra chi vive il precariato e chi lo descrive tornando poi alla sua vita comoda: inutile fingere che i due mondi si mescolino.
La Fracture di Catherine Corsini mescola passione sociale e risate con una coppia di lesbiche sull’orlo della rottura, una è Valeria Bruni Tedeschi, finite in ospedale dopo essersi trovate fra le proteste dei gilet gialli. Tout s’est bien passé di Francois Ozon affronta il tema dell’eutanasia con Sophie Marceau che, a quarant’anni da Il tempo delle mele, esprime affetto e risentimenti per un padre che vuole il suicidio assistito.
Il film-scandalo
Cannes non sarebbe Cannes senza alcuni punti fermi. Un film-scandalo: il regista Paul Verhoeven con Benedetta, ha messo in scena il “basic instinct” omosessuale di una suora, Benedetta Carlini, processata nel Seicento. L’idea: raccontare il rapporto tra spiritualità e tentazione. Risultato: momenti di involontaria comicità (una statuetta della Madonna usata come dildo). «Non capisco come possa scioccare qualcosa che è davvero avvenuto, la chiesa ha coperto le sue malefatte per secoli, dalle Crociate ai preti pedofili» dice lui.
Il capolavoro di Anderson
E ancora. Un capolavoro annunciato: The French Dispatch di Wes Anderson, da oltre un anno in attesa della Croisette, è un omaggio al The New Yorker e ai suoi giornalisti qui immaginati in una colonia parigina del giornale americano. Con un gruppo di grandi attori – Bill Murray, Tilda Swinton, Frances McDormand, Benicio Del Toro e altri – racconta alcuni reportage con minuzia e dettagli vintage, in una specie di sfoglio visivo della rivista che punta sul racconto d’autore. Raffinato, con virtuosismo.
La famiglia Penn
E poi c’è il grande ritorno: Sean Penn, regista e attore di Flag Day insieme alla figlia Dylan, protagonista, che si è rivelato però anche una gran delusione. In un noioso bagno di cliché segue la crescita di una ragazza che ha per padre un grande truffatore: un omaggio ai figli di Sean (c’è pure Hopper Jack, nato anche lui dal matrimonio con Robin Wright) più che all’amore filiale o alla famiglia, come vorrebbe il divo.
Il ritorno del cinema
Intanto Spike Lee promette di scompigliare i pronostici («Se i giurati si spaccheranno, sarò io a decidere: ci divertiremo!»). Lancia proclami politici («Il mondo è dominato da gangster senza morale», «A 32 fottuti anni da Do the right thing non vorrei più vedere i fratelli braccati come animali»).
E mentre in America prepara un musical sulla nascita del Viagra lanciato, ironia della sorte, proprio dalla Pfizer dei vaccini, qui fa la cosa giusta abbandonandosi all’allegria del red carpet per festeggiare il ritorno del cinema nelle nostre vite. All’inaugurazione del 6 luglio sembrava quasi che la pandemia fosse stata solo un film: assembramenti al limite dell’imprudenza, parata di stelle del cielo hollywoodiano invitate dal delegato generale della rassegna, Thierry Frémaux, per riportare il festival alla sua grandeur.
A tagliare il nastro, Marion Cotillard e Adam Driver con il musical punk-rock Annette di Leos Carax, amato dai cinefili di Francia (Gli amanti del Pont Neuf). È la storia d’amore tra una dolce cantante d’opera e un graffiante stand-up comedian, ambientata a Los Angeles, fra brani non sempre orecchiabili del duo Sparks e risvolti da favola nera, e con la prima canzone, So may we start, perfetta per la voglia di ricominciare.
«Nessuno avrebbe sopportato una seconda cancellazione dopo quella del 2020», ha detto Frémaux, fiero di accogliere Jodie Foster per la Palma d’oro alla carriera con Pedro Almodóvar a consegnarla. Chiamati alle armi: Carla Bruni, Jessica Chastain, il regista sudcoreano di Parasite, Bong Joon-ho, che ha trionfato qui due anni fa e a settembre sarà presidente di giuria alla Mostra di Venezia. E per il gran finale del 17 luglio, Kate Winslet premierà una regista donna per il neonato concorso Lights on Women Award, sponsorizzato dalla L’Oréal.
«Non vedevamo l’ora di uscire, vero? Basta pigiama, eccoci qui nei nostri bei vestiti!» ha detto nel suo francese perfetto Jodie Foster, salita sulla Montée des marches per la prima volta a 13 anni con Martin Scorsese, Palma d’oro per Taxi Driver nel 1976.
Matt Damon, granitico padre di una carcerata nel film Stillwater di Tom McCarthy, fuori concorso, si scioglie in sala: «Vedere un film al buio con mille sconosciuti è un’emozione che non ricordavo: è stato come la prima volta». Piange pure l’iconica Catherine Deneuve, tornata dopo l’ictus di due anni fa. Nella vicina Cap d’Antibes anche Steven Spielberg si prepara a salvare il “soldato Ryan” del momento, un settore che ha perso nel 2020 il 72 per cento degli incassi nel mondo, da 42 a 11 miliardi di dollari: venerdì 16, insieme ad Alicia Keys, sarà al tradizionale gala benefico dell’Amfar (Fondazione per la ricerca sull’Aids) previsto in forma più “intima”.
Se infatti il Covid ha impedito all’attrice Léa Seydoux di presentare i suoi quattro film, non ha del tutto fermato le feste, diventate discrete, quasi segrete, dopo le voci di un cluster locale di varianti Delta. Alla prima di The Velvet Underground, documentario di Todd Haynes sulla celebre band, un uomo nell’entourage del regista raggiunge l’attrice Helen Mirren, in sala col marito, per invitarla a uno di quei party che una volta erano vetrina strombazzata e ambita dello showbusiness. Sui lidi della Croisette, di notte, mancano le luci stroboscopiche e i soliti ritmi ballerini ma dalla strada guardando all’insù si avvista qualche terrazza piena di lustrini e smoking. La movida in trasferta sui tetti.
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