Kate Clancy è un’antropologa americana autrice del saggio Ciclo. Storia e cultura dell'ultimo tabù: «Il ciclo mestruale è un tema su cui anche gli scienziati continuano ad avere pregiudizi e questo lo ha fatto rimanere per troppo tempo un campo quasi inesplorato»
Kate Clancy è un’antropologa americana che insegna all’università dell’Illinois, dove guida un gruppo di ricerca nel campo dell’endocrinologia evolutiva. Ha pubblicato per la Luiss University Press il saggio Ciclo. Storia e cultura dell’ultimo tabù, in cui analizza come il corpo femminile sia ancora poco studiato e venga ancora utilizzato come strumento per sopraffare le donne.
Nel saggio, racconta di avere iniziato a occuparsi dell’argomento delle mestruazioni nei suoi studi quasi per dispetto al suo professore, perché?
Quel mio sentimento di quando ero studentessa è nato da una constatazione: i miei colleghi maschi e i professori erano interessati a parlare di ormoni o di ovulazione, ma appena si affrontava l’argomento del ciclo mestruale ridacchiavano e sembrava che non riuscissero proprio ad affrontarlo in modo professionale. Credo che questo sia un tema su cui anche gli scienziati continuano ad avere pregiudizi, e questo lo ha fatto rimanere per troppo tempo un campo quasi inesplorato. Esiste ancora quasi uno stigma su questo argomento, anche nel mondo scientifico.
È cambiato qualcosa da quando lei studiava a oggi?
Sicuramente è cambiato molto. Negli ultimi trent’anni l’avvenimento più significativo è stata la presenza di professoresse donne, che hanno portato avanti nuove idee e studi in materia di evoluzione delle mestruazioni, anche se non subito è stato tutto accettato nella letteratura scientifica. La questione mestruale poi è entrata anche nel dibattito politico in senso più ampio, per esempio con la crescita del movimento per il period equity, che chiede che gli assorbenti non siano trattati come un bene di lusso da tassare. È una questione forse minore, ma ha prodotto l’effetto che si ricominciasse a parlare di mestruazioni, connettendole non solo al tema economico, ma anche con il dibattito sull’ambientalismo.
Nel suo libro parla di metodo scientifico femminista, cosa intende?
Una metodologia femminista è quella che riconosce che, anche in materia scientifica, bisogna partire dal presupposto che esistono questioni di potere e quindi di gerarchie. Dunque, questi elementi di potere occulto vanno riconosciuti e gli assunti da cui partono devono essere messi in dubbio. In altre parole, i fenomeni vanno analizzati cominciando con il porsi una domanda: chi è in una posizione di potere e perché? Ragionare in questo modo aiuta a capire veramente il contesto in cui si sono prodotti gli studi in campi che sono appunto ancora tabù, come il ciclo mestruale, e a produrre oggi ricerche più corrette.
Per secoli argomenti scientifici di ginecologia sono stati appannaggio di scienziati maschi.
Infatti. E questa influenza è tutt’ora molto forte. Le faccio un esempio: mio marito è un ingegnere, abbiamo lavorato insieme a un progetto di bioingegneria che studia l’endometrio, per capire come si genera. Come è possibile che nessuno lo abbia mai analizzato prima in modo approfondito? Come mai nessuno ha analizzato come è possibile che in poche settimane, durante la gravidanza, si generi la placenta? L’utero è l’unico organo che forma nuovi tessuti apparentemente dal nulla, e studiare come si generino così velocemente ha enormi implicazioni per il futuro in ambito medico. Invece non ci ha mai pensato nessuno, perché la maggior parte degli scienziati sono uomini. I quali evidentemente non hanno un utero.
Lei sostiene che in futuro le mestruazioni potranno diventare una scelta. Eppure proprio il concetto di libertà di scelta sul proprio corpo è sempre più compromesso negli Stati Uniti, e mi riferisco alla sentenza Roe v. Wade che ha prodotto il divieto di aborto in molti stati. Non le sembra che la libertà di scelta stia diminuendo invece che aumentando?
Io credo che in futuro vada ripensato il concetto di scelta o non scelta, quando si parla di aborto. In America si sta sviluppando la teoria del subjective fetal personhood, ovvero la soggettività della personalità fetale. Oggi la domanda che ci poniamo è: in quale momento della gravidanza l’aborto è da considerarsi sbagliato? E per quali ragioni? Invece, io credo che la persona incinta debba decidere se si tratta di una gravidanza voluta o non voluta. Credo che dovremmo smetterla di ragionare fissando dei limiti temporali, e cominciare semplicemente a fidarci del fatto che una persona incinta sia in grado di prendere una decisione consapevole. A differenza di quanto suggerisce una certa narrativa, la scelta di abortire non è qualcosa che si prende a cuor leggero, e ci sono casi in cui dovrebbe poter avvenire anche verso la fine della gravidanza, nei casi in cui il feto sta morendo e anche il genitore rischi la vita.
Invece, in stati come il Texas, l’aborto è diventato sempre illegale.
Purtroppo è in corso una criminalizzazione delle persone incinte, togliendo loro il diritto di scegliere. Nella pratica, poi, si tratta di una limitazione che non ha a che fare solo con il genere, ma anche con la razza. Negli Stati Uniti è più probabile che a venire perseguita per un aborto illegale sia una persona non bianca.
È evidente che la legge che vieta l’aborto in Texas sia concepita in modo ingiusto e venga anche applicata in modo variabile. Questo però ci dice un’altra cosa: la motivazione dietro questa legge non ha nulla a che vedere con la vita del feto. Ha invece molto a che fare con un progetto che definirei eugenetico, secondo cui alcune persone devono rimanere incinte e altre no, e le persone che hanno un utero devono essere punite se non si comportano come ha stabilito chi governa.
Cosa intende per eugenetica?
Storicamente con eugenetica ci si riferisce alla teoria di sir Francis Galton secondo cui, per progredire, è necessario che ci sia una selezione della specie e – essendo Galton un uomo bianco – il suo obiettivo era di sostenere la natalità tra le persone bianche, per creare una razza bianca superiore. Il punto centrale che oggi mi sembra ritornare, però, è che l’eugenetica sosteneva di fatto che alcune vite sono più importanti di altre.
Lei usa un linguaggio molto specifico e inclusivo, in particolare dice «persone che mestruano» o «con utero». Perché lo preferisce?
C’è una ragione morale: perché dovrei scrivere in un modo che non include tutti? Non tutte le donne hanno le mestruazioni e ci sono persone transgender che non sono donne ma che le hanno, perché non dovrei includerle? C’è poi anche una ragione scientifica, che presuppone il fatto che io utilizzi il linguaggio più preciso possibile, e il linguaggio inclusivo lo è. La donna non ha le mestruazioni per tutta la durata della sua vita, quindi non può essere usata come categoria generica. Infine, da persona cisgender, trovo molto poco corretto, sia a livello scientifico che morale, che un dottore guardi i genitali del bambino e ne stabilisca il sesso al momento della nascita, ignorando tutto ciò che non è binario e che gli ormoni possono essere diversi se una persona è intersessuale, per esempio.
In Italia si è riacceso un dibattito che si può definire femminista, contro la violenza di genere. Cosa pensa dei nuovi movimenti collettivi?
Mi sento di dare un solo consiglio: quando ci si appassiona a una causa, la prima cosa da fare è fermarsi e guardare cosa su quel tema è già stato scritto e detto. Molto spesso ci sono già decenni di riflessioni, da cui si può imparare e su cui costruire. In merito ai movimenti di solidarietà femminile, credo che il primo obiettivo debba essere quello di unirsi, prima ancora di partorire nuove idee.
Il suo libro, che è sulle mestruazioni, parla però soprattutto di disuguaglianze e rapporti di potere. Perché il corpo è tornato a essere un argomento così politico?
Il corpo lo è sempre stato, ma è vero che in questi ultimi anni molti gruppi politici hanno orientato le proprie posizioni con l’obiettivo di disumanizzare gli avversari. Questo perché, disumanizzandoli, si può sostenere di avere il diritto di esercitare potere sugli avversari. È quello che sta facendo anche Israele, chiamando «animali umani» i palestinesi. Prenda il dibattito sui pronomi neutri, quello sulle mestruazioni o sull’aborto: sono tutti argomenti legati al corpo che alcuni gruppi politici utilizzano per esercitare potere e dominio sugli altri, riducendo l’umanità delle persone a cui si riferiscono.
Che ruolo hanno, in questo contesto, i nuovi movimenti femministi e per i diritti?
La filosofa femminista Kate Manne, in Downgirl: l’origine della misoginia, spiega che le donne bianche privilegiate continuano a essere considerate umane fino a quando continuano a esercitare le loro funzioni di cura e di servizio per gli uomini. Appena rompono questo meccanismo, però, improvvisamente sorgono i primi conflitti. Ecco: io penso che in questo momento storico le donne, le minoranze di genere e le persone non bianche stiano davvero iniziando ad acquisire consapevolezza e a dire: «Merito più di un ruolo di servizio, merito una piena partecipazione nella società». E credo anche che questo sia molto spaventoso per alcune persone e gruppi politici.
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