A scuola i ragazzi non possono abbracciarsi, fare a botte, aprirsi all’altro. Accettano le restrizioni con diligenza commovente. Lo facciamo per il loro bene, certo. Ma non ci stiamo occupando abbastanza della loro salute psicologica e affettiva
- Solo all’uscita da scuola vedi i ragazzini raggrupparsi illegalmente, abbassare le mascherine e starsi addosso come a liberare un bisogno troppo a lungo trattenuto. Ma sono pochi minuti, si deve tornare a casa.
- Qual è il costo psicologico di questa nuova normalità? Il Sunday Times ha pubblicato una lettera aperta firmata da oltre cento psicologi ed esperti che pone un problema che non ci stiamo ponendo abbastanza. Non è seguito dibattito.
- È sempre stato così. Si è lottato per un salario migliore, non per una vita migliore; per la certezza di non essere licenziati, non per la qualità del lavoro. La mente, l’affettività, sono una nota a piè pagina, scritta in piccolo.
Mangiare piano
Alle sette e mezza del mattino, tra le sette e mezza e le otto del mattino, ci sono i bambini, i ragazzini, gli adolescenti che vanno a scuola. Quello che corre, assorbendo la durezza del marciapiede con le sue sneakers dalle morbidissime suole hi-tech, sembra levitare, beato lui; quello già perso nel suo telefono, che alza gli occhi sempre un istante prima di schiantarsi contro un palo, come farà?, mi chiedo ammirato guardando la sua zazzera che salta con lui; quello rotondetto che fatica con il trolley pesantissimo (avevano detto: «Quest’anno faremo in modo che dobbiate portare meno libri possibile a scuola, dal momento che non potrete mai lasciare nulla in classe, perché ogni giorno la classe va sanificata»); quello che mangia una brioche guardando in alto, forse si è già fatto una cannetta, sembra proprio che stia prendendo la strada verso il Liceo Classico Manzoni, sì, ha proprio l’età e lo sguardo da cannetta, quanto vorrei essere lui; lei, più piccola del suo zaino, perduta nei suoi occhi chiari che tutti guardano e che lei apposta nasconde; lei in bicicletta, dodici anni e già sicura di sé, dolcezza senza fine, rimpianto inutile e inevitabile in chi guarda la bellezza del futuro.
Hanno tutti la mascherina d’ordinanza. Entreranno scaglionati come piccoli malfattori avviati nelle stanze delle autorità. Si siederanno su banchi singoli, dentro scatole di plexiglas i più fortunati. Gli altri dovranno tenere la mascherina tutto il giorno. Provo a pensare a me tredicenne in questa situazione e non mi viene in mente niente. Avevamo di più? Di meno? Abbiamo reso giustizia all’età dell’innocenza? Che pirla, mi dico mentre penso questi pensieri così naturali e così privi di senso. Ingoio un caffè ristretto e ci ripenso, mentre mio figlio accanto a me mangia con trattenuta avidità un cornetto al cioccolato («Mangia piano!», il mantra che mi ripeteva mio padre, vorrei ripeterlo a lui, ma lui no, lui mangia piano, si trattiene).
Crepe, voragini
I nostri figli, a scuola, non possono incontrarsi. Non possono toccarsi, fare a botte, accarezzarsi, giocare coi corpi che cercano una bella soluzione alla loro instabile biochimica senza saperne niente – beati, no beati per niente. Dovranno aspettare. Una primavera seduti a casa davanti al computer (grazie, scienza, che ci hai dato il computer); una estate che è sembrata una parentesi con dentro solo punteggiatura e non invece quella sciocca promessa che tutti ricordiamo; e ora la dissociazione permanente tra regola e comportamento, tra senso di sé e confini invisibili che dovrebbero tenerli lontani da un nemico altrettanto invisibile e innocuo per loro.
Nelle classi – mi dicono, e io diligentemente ascolto – ci si lamenta di una loro certa indocilità durante le lezioni; disturbano, sono a volte aggressivi, sono molto diversi da prima. Si lamentano delle regole, le regole invisibili per il nemico invisibile. Sono regole impossibili da introiettare e sentire proprie, che è poi l’unica via per sopravvivere, alle regole, anche e soprattutto inconsapevolmente. Si ribellano al divieto di giocare a pallone fabbricandosi delle palle di carta e scotch – ma guarda proprio come facevamo noi, quando il pallone era vietato, sempre. Non capiscono perché devono andare in bagno non quando gli scappa ma quando si può; perché alla macchinetta degli snack non ci si va all’intervallo ma durante le lezioni, perché anche abituarsi a nuovi e strani diritti non è facile. Quelli dell’altra sezione non li incontri all’intervallo; non puoi azzuffarti, scoprirti piano piano, aprirti verso l’altro.
Solo all’uscita li vedi raggrupparsi illegalmente, abbassare le mascherine e starsi addosso come a liberare un bisogno troppo a lungo trattenuto. Ma sono pochi minuti, si deve tornare a casa. In città, A.D. 2020, i ragazzini non se vanno in giro a bighellonare, sono cresciuti già disabituati alla spontaneità, alla piccola fuga, al gruppo. I genitori sono preoccupati, una generazione di genitori preoccupati e figuriamoci ora, col Covid, subito a casa! Ci abbiamo pensato davvero a cosa sono chiamati i nostri figli? Oppure dobbiamo semplicemente arrenderci all’evidenza di quel che ci dicono di fare in questo momento? Se cascano le bombe e non c’è da mangiare si dorme in cantina, si mangiano i topi e si guarda la crepa pregando che non si apra in una voragine. È successo. Almeno in questo caso non siamo stati noi. O forse sì, ma siamo stati così tanto noi e da così tanto tempo che è piuttosto difficile sentirsi responsabili, ancor più difficile trovare soluzioni.
Corpi ammorbati
Io ovviamente della difficoltà ad ascoltare la lezione «non come l’anno scorso», di questa tendenza all’irrequietezza, sono felice. Lo dico forte e chiaro quando ne parlo con un paio di amici insegnanti – ne conosco di eccezionali. E non è un’iperbole. Lo sono davvero e ora, forse, si nota di più. Hanno di fronte un periodo complessissimo, saranno più che insegnanti, e dovranno esser saggi e pazienti. Io a mio figlio non dico di stare più tranquillo, gli dico, anche se non ce n’è bisogno, di usare tutta l’energia che ha quando riesce, di stare attento a non ubbidire troppo, di dirmi (beata ingenuità, mia) se c’è qualcosa che non va. No, va sempre bene per loro e in questo sono commoventi. Ma forse non sanno cosa stanno perdendo. Noi forse un po’ sì. O per lo meno dovremmo porci la domanda.
Qual è il costo psicologico di questa nuova normalità? E invece, spesso se non sempre, siamo semplicemente risucchiati dalle regole, nel pio desiderio di addomesticare, attraverso la loro enorme complessità, la paura che ci affligge diluendola nella nuova laboriosità della vita quotidiana. «Ma cosa dobbiamo fare se uno si ammala un giorno, ma il certificato medico, ma il tampone, e la giustificazione, e il pezzo di carta, col timbro o senza timbro, e l’Ast, ma 37.4?». Ci hanno dato un sacco di regole e poche chiavi per capirle. Un po’ come in tutto il resto, dunque un minimo dovremmo essere preparati. E invece.
E invece quel che sappiamo è che le classi sono sanificate tutti i giorni, addirittura c’è chi si organizza per comprare (attraverso colletta nella chat dei genitori) dei purificatori d’aria. Che superflua diavoleria penso, mentre rispondo entusiasta “sì” e capisco che di un placebo tranquillante abbiamo bisogno tutti. E penso con gratitudine, addirittura con tenerezza, a chi l’ha proposto. E mi sciolgo a leggere il dibattito su quale sia il migliore sul mercato. Non abbiamo che questo e su questo siamo costretti, insieme, a crearci un senso. Tuttavia a ogni ulteriore livello di sanificazione è come se ci fosse un uguale e contrario ammorbamento del corpo. Le superfici sono asettiche e luccicanti, i corpi delle ragazze e dei ragazzi diventano ogni giorno più opachi. E non lo sanno.
Le regole viste dai bambini
Il rapporto con le regole è un elemento fondamentale della crescita e della formazione dell’identità. Le regole vanno comprese, sentite, introiettate. Ma come facciamo a spiegargliele, queste? Non si vedono le bombe, non si vede la sofferenza, non è rappresentabile. Ciò che vedono è la parafernalia difensiva, mascherine, guanti, gel, plexiglas. E come possiamo insegnare loro a comprendere le regole, e una volta comprese giudicarle e una volta giudicate sentirsi in grado di metterle in discussione, di cambiarle?
Arriva tutto dall’alto, eppure ci vedono giustamente come loro pari i bambini, in nulla più forti di loro, anzi più deboli perché è per proteggere noi che li abbiamo privati della libertà, è per proteggere noi che si trovano costretti a vivere questa semi-cattività da cucciolo di specie in via di estinzione. E l’esperienza ci dice che un cucciolo cresciuto in cattività non sarà attrezzato al meglio una volta libero.
Passano sei o otto ore al giorno in piccoli riformatori superlight, subendo tuttavia la stessa incomprensibile e astratta coercizione, apparentemente blanda e sopportabile, eppure viva e visibile; anzi, l’unica cosa visibile. Il freno, non vedono che il freno. Al volante non c’è nessuno. Perché lo stesso freno lo vedono e subiscono anche gli insegnanti. Sono tutti allo stesso livello. L’inevitabile effetto collaterale del vederci come loro pari, se non ancora più indifesi di loro, è un problema; perché non ti ribelli, non saprai ribellarti a un’autorità che non riconosci, ma che tuttavia c’è. Gli mancherà un pezzetto a questi figli nostri e non potremo darglielo noi. Noi dovremmo essere l’altro. E siamo lo stesso, invece.
Ho sentito ragazzini di dodici anni gioire alla notizia che Trump si è ammalato – no, non voglio che muoia ma così impara a non mettere la mascherina. Oppure: non deve morire ma almeno indebolirsi e perdere le elezioni. Modelli di adulti. Un altro mi ha detto che se si trovano in questa condizione è perché quest’estate gli adulti «hanno riaperto le discoteche e poi è ovvio che se apri le discoteche le persone ci vanno a ballare». Un tipetto dall’occhio veloce e la parola lenta ha sillabato che non ha paura del Covid, ha paura dell’effetto che può fare agli altri: «Le limitazioni sono per il bene degli altri». Modelli di bambini. Una quarta, sempre dodicenne, ha detto, sinceramente preoccupata che «per gli adulti deve essere più difficile perché nessuno si prende cura di loro». I bambini sono preoccupati per noi. Amen to that. Quanto hanno ragione.
Ballard, e chi se no?
In effetti l’unico tratto comune è la messa in discussione delle decisioni degli adulti e temo non sia soltanto un’eco dei discorsi da bar, tanto meno un effetto da bolla Milano centro, il bar dal quale sto uscendo ora, covo della borghesia ex illuminata della città. Che fuori, nelle periferie, nelle case in cui si sussurrano odio e impotenza, povertà e dolore, il Covid ha già fatto danni immensi. Eppure non ci sono segni di rivolta giovanile e temo che non sia dovuto alla vantata solidità dei tessuti familiari e della capacità genitoriali di guidare i propri figli anche nei momenti nei quali siamo noi i primi a non capirci nulla.
Mi vengono in mente incongruamente i bimbi rom con i quali ho girato il mio ultimo documentario. Loro, belli e intelligenti, rispondevano serafici alle mie domande sulla loro qualità della vita. Ma non vorresti vivere in una casa vera, non pensi che sia un tuo diritto? «Di cosa stai parlando – rispondevano, tutti – questa è la mia famiglia e la mia casa è dov’è la mia famiglia, non m’importa se è un cesso di lamiera o una casa con le finestre che si chiudono».
Nessuno strumento per ribellarsi, nessuna mano tesa da fuori, nessuna idea che insieme alla propria famiglia si possa andare in un altrove che c’è ed è raggiungibile, un altrove con le finestre, la scuola, il diritto ad essere bambini. Il sangue mi va alla testa insieme ai caffè – che sono diventati due, mentre guardo la scintillante nuova edicola ecosostenibile in vetro e legno che ha appena preso il posto di quella che è stata a quest’angolo di strada da cinquant’anni. Stanno addirittura facendo l’inaugurazione, con lista, prosecco e steward in completo nero. Ma non devo divagare, torno a forza ai miei pensieri annebbiati e impauriti congratulandomi a distanza con il mio meraviglioso edicolante.
E mi viene in mente un romanzo di Ballard, penso che probabilmente alleveremo una generazione di bimbi ubbidienti che con nonchalance, come in quel capolavoro intitolato appunto Un gioco da bambini, finiranno (giustamente?) per eliminarci per gioco. Oso sperare che non lo faranno fisicamente come avviene nella novella dello scrittore inglese, nella quale una microsocietà perfetta e ricca, segregata dal mondo, sanificata, cresce figli tanto noiosamente docili e felici di ubbidire da renderli folli.
Come scrive quasi in chiusura romanzo: «Si sentivano imprigionati per sempre in un universo perfetto. In una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia». Percepivano insomma un senso dove un senso non c’era, ma sola vuota osservanza e disciplina, fino a quando boom! hanno capito tutto. Ballard, fine anni Ottanta.
La rimozione
Il loro accettare la normalità assurda come solo la mente flessibile e ultraresistente dei ragazzini sa fare è a mio parere un pericolo. Visti da fuori sono eroi. Visti da dentro lo sapremo tra qualche anno. Se saremo così bravi da saper guardare. Io non ce la potrei fare, mi dico, accendendo la sigaretta dopo il caffè e guardando mio figlio scappare via in monopattino e mascherina. «Ce l’hai il disinfettante?», gli urlo da lontano. Lui si gira e mi fa la grazia di un cenno affermativo. Anche oggi saranno sterili, divisi da pareti trasparenti, soli insieme agli altri, gli occhi vedono e il corpo non può agire. Non dimentichiamo ciò che sta accadendo. Avremo bisogno di ricordarlo bene per porre rimedio a quel che produrrà – e chi lo sa? Sembra che a pochi importi delle ricadute psicologiche di quel che dobbiamo, di quel che è giusto fare. E che tuttavia non sarà senza conseguenze.
Quante ore al giorno passa la ministra dell’Istruzione a studiare l’impatto nel medio periodo che questa scuola avrà sui ragazzi? C’è qualcuno che se ne sta occupando o ci sono solo circolari sul plexiglas e la sanificazione e il divieto di giocare a pallone? Siamo tutti d’accordo che la mente, l’identità, la crescita affettiva va curata quanto e più del corpo? Che ci sono molti e diversi virus immateriali che lavorano in modo ancora meno visibile del Covid ai fianchi delle nostre insperate esistenze? Dopo alcune pagine di risultati di Google con la chiave ”psychology, schools, Covid” che restituiscono solo guide alla sanificazione et similia mi imbatto finalmente in un breve articoletto della Bbc.
Parla di una lettera aperta firmata da più di cento specialisti in psicologia, salute mentale e neuroscienze pubblicata sul Sunday Times. Scrivono che è tempo che «i più giovani siano consultati rispetto alle decisioni che li riguardano. Dobbiamo riconoscere il sacrificio che I bambini hanno già fatto per gli altri e non possiamo chiedergli che questo sacrificio continui», mentre invece, prosegue la lettera, «continuiamo a danneggiarli, con conseguenze che avranno un effetto sulle loro intere vite e sulla società». Non è seguito dibattito.
Risposte infrequenti
Sul sito dell’Organizzazione mondiale della sanità c’è una pagina dedicata alla riapertura delle scuole post lockdown: sotto il titolo “Scuole e Covid, domande e risposte”, c’è un menù-elenco: i bambini sono a minor rischio di contrarre il Covid? Come ci si regola con i trasporti? Quanto dura il periodo di incubazione per i bambini? È utile usare le mascherine? Se sì, quali? Quali sono le misure di controllo e prevenzione che è necessario mettere in atto?
Mi fermo qui, ce ne sono altre dieci o quindici, in nessuna compare nemmeno di striscio il tema della psicologia, della qualità della vita, della crescita affettiva e relazionale. Nemmeno una parola. Una svista, o una gigantesca rimozione? Può mai essere, davvero, una svista? Nessuno ha pensato, ehm, ma che diamine, vogliamo mettere due risorse sul tema del loro benessere mentale e affettivo, almeno due, giusto per non fare brutta figura? Sono l’Oms, non la bocciofila. Non ho risposte, solo incazzatura. E smetto di cercare, perché se devo cercare così a lungo significa che se anche trovassi qualcosa sarebbe irrilevante, nascosto al risultato 654 e probabilmente di livello accademico e non divulgativo.
È sempre così. E, soprattutto, è sempre stato così. Si è lottato per un salario migliore, non per una vita migliore; per una pausa più lunga e non più ricca di affetti, divertimento e leggerezza; per la certezza di non essere licenziati, non per la qualità del lavoro. La mente, l’affettività, sono una nota a piè pagina, scritta in piccolo, come le clausole delle rate che paghiamo mensilmente erodendo il conto, già in negativo, della nostra esistenza. Faremmo bene a prenderne nota, facendo noi qualcosa per loro. Siamo già abbondantemente in debito.
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