Una delle scrittrici più lette di questo inizio anno racconta il mondo di Sassaia, dove ha ambientato il suo romanzo Cuore nero. Per parlare del male che si fa e che si riceve, della nostra relazione con i traumi, della difficoltà di costruire il bene. «Dobbiamo salvarci dalla solitudine»
Sassaia è un borgo piccolo, incastrato tra boschi e montagne, non ci vive quasi nessuno e quando Emilia ci s’insedia Bruno, assistendo all’arrivo di questa estranea misteriosa e bella, è sorpreso, e da lei si sente subito attratto. Quando le loro vite s’incrociano, non è solo l’incontro tra due corpi, ma tra solitudini spaventate, esistenze difficili e rabbuiate da colpe profonde, mai scandagliate da altri. Hanno entrambi conosciuto il male, quello commesso e quello subito, e sono certi che la fuga sia la sola via possibile, per la loro. S’innamorano, però, e cambia tutto.
Silvia Avallone, Sassaia è impermeabile al Tempo. Perché ha scelto un luogo del genere per ambientare Cuore Nero?
Volevo raccontare un posto in cui fosse possibile ricominciare – ricominciare a respirare, a vivere. Emilia e Bruno hanno trascorsi difficili e un nuovo inizio ho pensato potesse passare solo da un luogo così.
Come l’ha scoperto, Sassaia?
Per caso. Dopo la pandemia ho preso a girare per le valli in cui sono cresciuta, desideravo il contatto con la natura, e sono capitata in questo borgo – e ci sono arrivata con una mulattiera, come nel romanzo.
Emilia e Bruno s’innamorano subito l’uno dell’altra, qualcosa li attrae e si ha la sensazione siano pure le rispettive sofferenze. Il nostro dolore può fiutare quello degli altri?
Sì, ne sono convinta. La loro condizione, però, è molto specifica. A trent’anni vivono in un paesino perso tra i boschi perciò lo sentono subito, che la persona che hanno di fronte ha traversato dei grandi tormenti. Intuiscono che se l’altro si trova lì è perché è abitato da un irreparabile.
Sboccia l’amore, sboccia la vita.
Finché sei al mondo, la vita ti chiama – ti chiamerà sempre.
Ha parlato di irreparabile.
È una parte di loro – è una parte di ciascuno di noi.
Cosa possiamo fare con le parti insanabili di noi stessi?
Questa è la domanda: la domanda che si pongono Emilia e Bruno, la domanda alla base del romanzo.
È riuscita a trovare una risposta?
Non ho delle risposte, ho solo delle ipotesi. Siamo sfaccettati, e abitati da così tante cose: non credo ci sia spazio nel mondo per distinzioni così nette. Prenda Emilia: è la ragazza di cui s’innamora Bruno ed è quella che ha commesso un atto orribile: è, al tempo stesso, momenti diversi della sua esistenza.
Dunque quale possibilità per le nostre parti irreparabili?
Possiamo solo costruirci attorno quanto più bene possiamo. Il male non passa, resta nella nostra vita e in quella degli altri ma possiamo edificare, tutt’attorno a quel male, un nuovo bene.
Viene fuori che nessuno si salva da solo.
Abbiamo sempre bisogno dell’amore di chi abbiamo accanto.
Avallone, lei da chi è stata salvata?
Anzitutto, dai miei genitori. Da bambina mi dicevano sempre che il mondo è un bel posto, un luogo in cui i sogni possono essere azzardati, a volte realizzati e che avrei dovuto fare ciò che mi accende, che mi fa star bene. Poi le amiche, per me fondamentali – sono la mia piccola comunità. Mio marito, le mie figlie. Alcune insegnanti. E i libri.
Da cosa crede che dobbiamo salvarci l’un l’altro?
Dalla solitudine. La solitudine ci fa perdere fiducia nel mondo.
Torniamo a Cuore nero: un altro pilastro del romanzo è che non siamo i nostri traumi. Cosa sono, allora, i nostri traumi rispetto a noi stessi?
Per risponderle, credo sia necessario operare una distinzione tra il male subito e quello commesso. Iniziamo dal più facile. I traumi che le hanno inflitto sono quelli che scatenano in Emilia la rabbia che la porta a fare ciò che ha fatto da adolescente, che la avvelenano. È inevitabile, nel corso della vita, perdere una persona che amiamo, venir delusi, derubati, traditi. Ognuna di queste ferite è una crepa, la possibilità di un cambiamento, e può diventare la condizione per migliorare, crescere, diventare persone più consapevoli. Il dolore purtroppo è necessario: è conoscenza, attraversamento e un’occasione che non dovremmo sprecare, che anzi dovremmo usare. Sprecarlo coincide con il lasciarsi andare alla rabbia che segue la sofferenza, utilizzarlo è fortificarsi, imparare qualcosa in più di noi stessi e del mondo.
I momenti più dolorosi per lei sono stati insegnanti?
Sì, assolutamente. Sono stati necessari al mio percorso. Senza, oggi, non sarei la madre, la moglie, l’amica, la scrittrice che sono - e che fortuna, mi dico ora, aver attraversato quelle sofferenze.
Stava facendo la distinzione tra il dolore subito e quello commesso. Ecco, dunque: che farci con il male che abbiamo operato in passato?
Ritornerei a quel che le ho detto prima: possiamo solo costruirci del bene tutto attorno. Il bene è più faticoso del male, è meno banale. E ostinarsi nel bene è, a mio avviso, qualcosa di gigantesco.
A Emilia e Bruno è stata sottratta l’adolescenza, ciascuno per un motivo, e parrebbe cerchino di recuperarla anche traverso il loro amore – e tant’è che s’innamorano subito, proprio come due adolescenti, una notte vanno a ballare in discoteca, due trentenni circondati da ragazzini. Tra loro c’è, difatti, un trasporto che sembra adolescenziale. Le chiedo però: possiamo recuperare ciò che ci è stato tolto o dobbiamo seguire l’ordine del tempo?
Questo romanzo ha sempre un resto: per ogni domanda che pongo, e risposta che trovo, viene fuori qualcosa di nuovo. No, l’adolescenza non possiamo più recuperarla, una volta persa, ma possiamo sempre trovare quello slancio vitale che credevamo non esistesse più.
Lei ha sempre raccontato dell’adolescenza.
Sì, credo questa sia l’ultima, quella che mancava: l’adolescenza in negativo.
Un altro ritorno in questo libro è il tema della dualità: non soltanto ne ha parlato spesso – da Acciaio a Un’amicizia – ma, guardando alla letteratura contemporanea, pare ricorrere spesso – Ammaniti con Io e te e Io non ho paura, Giordano con La solitudine dei numeri primi.
Non a caso i libri che ha citato hanno per protagonisti dei ragazzi. Sono storie di formazione e la contraddizione è il motore di ogni crescita: amori, alleanze, amicizie: in questi libri sono i rispecchiamenti da cui si trae la forza necessaria al cambiamento – e il cambiamento è alla base della crescita.
A proposito di dualità, ma tirandoci fuori da Cuore nero: lo scorso agosto è nata Ingrid, e oggi Nilde ha una sorellina – ha due figlie.
L’ho molto desiderato questo due. Sono figlia unica e da bambina una sorella, un fratello l’avrei tanto voluto; per questo nei miei libri la protagonista ce l’ha sempre. Mi è mancata, crescendo, una figura del genere. Ritornando a ciò che dicevo prima sulla contraddizione e il rispecchiamento: sorelle e fratelli sono, di fatto, i primi, le prime con cui accade.
Scrivere un romanzo con tanto buio dentro in un momento così vitale?
Pesante, non lo nego. Da una parte avevo a che fare con una storia complicata, difficile da digerire, e, dall’altra sentivo un’apertura alla vita gigantesca e una felicità proprio grande.
Un momento in particolare?
Sono andata con Nilde, la mia primogenita, mio marito e suo fratello, quando ero già incinta di Ingrid, al cimitero di Ravenna, dove nel romanzo capita una cosa importante e volevo vederlo prima di scrivere. Ecco, eravamo lì, assieme e in una bella giornata, gli uccellini cantavano, il sole era alto, il cielo azzurro, limpido. E mi sono ritrovata a pensare di essere in un luogo triste, un luogo fatto di dolore, di ferite che non si rimarginano, però con tanta vita dentro di me. Scrivere Cuore nero, per certi versi, è stato così.
I suoi protagonisti sono entrambi orfani di madre.
La madre è ingombrante.
Si sente ingombrante?
Vorrei non esserlo, cerco di non esserlo. Desidero solo dar loro la fiducia nella vita che ho ricevuto io, dar loro l’idea che il mondo è un bel posto, che devono coltivare le passioni, essere curiose, cogliere le possibilità, non identificarsi con i loro errori.
Avallone, questa domanda la faccio a tutti: immagini di avere ottant’anni e che sia domenica mattina: dov’è, con chi è, cosa fa?
Nella valle Cervo, in una vecchia casa in mezzo ai boschi. Sto aspettando che arrivino le mie figlie, pranzeremo qui tutti assieme. Giovanni, mio marito, sta cucinando, mentre io scelgo il libro che leggerò oggi alle mie nipoti.
L’irreparabile?
Circondato dalla mia famiglia, le mie figlie e le nipoti: è il bene tutt’attorno.
© Riproduzione riservata