Sono molte le caratteristiche necessarie per essere uno scienziato imparziale che vuole essere autorevole. Alcune sono essenziali per “dialogare” con il mondo, come emerge dal libro di Gustavo Zagrebelsky sul filosofo
Quando un Autore, robusto di dottrina, caldo di passione e acuto di intelligenza scrive un nuovo libro, stiamone ben certi: quel libro lì fa sul serio. Fa sul serio e vuole essere preso sul serio. Vale a dire che ci si giova delle sue pagine anche quando in qualche punto si dissente da esse perché il dissenso stesso è un omaggio alla loro vitalità. Succede precisamente questo con il saggio che Gustavo Zagrebelsky ha dedicato a Bobbio presentandolo come uomo del dialogo e del dubbio (Il dubbio e il dialogo. Il labirinto di Norberto Bobbio, Einaudi, pp. 87 euro 13), e dunque come uomo che portava dentro di sé tutte le conseguenze del dubbio: a cominciare da una certa dolente perplessità interiore per finire con l’oscillazione tormentata dei suoi giudizi.
Cosa, peraltro, questa dell’ondulato mareggiare delle sue acquisizioni, di cui Bobbio diede lui stesso testimonianza allorché, giunto sulla stazione ultima della vita, volle riassumersi così: «La mia opera – disse – è cresciuta insieme con quella dei miei critici e, crescendo, si è talora impercettibilmente e inconsapevolmente modificata, tanto da provocare il rimprovero (…) di discontinuità, se non addirittura di contraddittorietà o d’incoerenza».
Pure, da quando è cominciata la storia della sua vicenda intellettuale (la storia, badiamo, non la “preistoria” che, come gli capitò di precisare, si arresta al 1943), da quel momento “storico” in avanti, pur tra pensieri rotti e frastagliati, uno ce ne è dal quale Bobbio non si è mai distratto e che ha coltivato come cosa sua, proprio sua, con quella trepida dedizione di chi dice a sé stesso: questa è una verità che mi appartiene e dalla quale io non posso decampare senza smarrire il senso stesso di una esistenza votata alla scienza.
Cos’è la scienza per Bobbio
La quale scienza, per Bobbio, è tale perché (e finché) è impegnata nello studio intelligente dei fatti. Dei fatti quali sono, beninteso, e non quali si vorrebbe che fossero. Allo scienziato importa poco che la realtà sia buona, giusta e morale. Conta che sia la realtà e il suo solo ufficio è pigliarla com’è, senza stabilire se essa possa o debba essere altrimenti. Chi fa scienza del diritto e/o della politica espone, espone soltanto e non valuta, non suggerisce cioè né il diritto “giusto” né l’”ottima” delle repubbliche, ma descrive il diritto che è e la repubblica che esiste, pure se bolsa e sfiancata.
Prescrivere, raccomandare, consigliare sono tutte prerogative del filosofo; non appartengono allo scienziato che è scienziato proprio in quanto rimane attaccato al vero, e spesso al crudo vero, che magari viene pure indagato con occhio commosso ma sempre risoluto a coglierlo fuori di ogni contaminazione prescrittiva.
Il ruolo di scienziati e filosofi
Stringiamo il discorso al dunque. Dunque, lo scienziato descrive; il filosofo prescrive. Quello gira attaccato alla mola dell’essere; questo sale nei cieli del dover-essere; l’uno prende conoscenza, l’altro prende posizione nei confronti della realtà.
Bene. Anzi, male. Male perché proprio questa distinzione che Bobbio rileva a punta di acciaio, proprio l’opposizione fra l’atteggiamento oggettivo/recettivo dello scienziato e l’atteggiamento soggettivo/propositivo del filosofo, è cosa che nel libro di Zagrebelsky dilegua in una specie di mezz’ombra ambigua dove scienza e filosofia si scambiano le parti e l’una finisce per parlare con la voce dell’altra. È così, ad esempio, quando l’Autore scrive che le riflessioni scientifiche sul diritto e sulla politica «assumono valore solo se indirizzate a comprendere e a guidare l’azione». E soprattutto è così quando, dando per presupposto ciò che presupposto non è (almeno per Bobbio), Zagrebelsky domanda: se la scienza «deve incidere sulla prassi, non si può sfuggire alla domanda: per servire quale prassi e in vista di cosa?». E di seguito, come martellando sull’interrogativo, chiede: «Quale è “il compito pratico” che la filosofia del diritto e della politica assumono su di sé?».
La ricerca scientifica non può dare giudizi di valore
Dove, intanto è da notare lo scivolamento dei termini che, come su un ponte volante, trascorrono con troppo fulminea rapidità dalla scienza alla filosofia del diritto e della politica. La qual cosa – concediamolo pure – sarà anche operazione legittima. Ma mai se compiuta con riferimento a Bobbio. Quando vengono traguardate per il reticolo del suo magistero, allora quel «guidare l’azione», e quell’«incidere sulla prassi» sono tutte aggiunte spurie che soffrono l’urto di un convincimento opposto; quasi potremmo dirle un fuor d’opera perché, appunto, sono tutte operazioni che cadono fuori dell’opera bobbiana per la quale – parole testuali di Bobbio – la ricerca scientifica non può «pretendere di dare alcun giudizio di valore sulle cose di cui si occupa e quindi di trarre prescrizioni immediatamente utili alla prassi».
Intendiamoci: non è facile spogliarsi dei propri valori quasi sigillandoli in un ripostiglio chiuso a doppia mandata. Ma – come spiega Bobbio con una immagine assai felice – «appunto qui sta la nobiltà dello scienziato: l’avalutatività è la virtù dello scienziato, come l’imparzialità è la virtù del giudice: a nessuno verrebbe in mente di dire che, essendo difficile essere imparziale, tanto vale non esserlo».
Certo è difficile, difficilissimo, proprio da sudore nei Getsemani, sciogliere lo scienziato dai lacci delle sue preferenze. È difficile, però, non impossibile. Purché ad una condizione: a patto di chiarire che la liberazione dalla stretta dei valori non significa affatto la cancellazione di essi (tanto varrebbe eliminare le parole, gorgoglianti come esse sono di apprezzamenti e di deprezzamenti impliciti, di “filie” e di “fobie” nascoste, e parlare perciò con i segni della logica formale: che è, poi, un giocare di fantasia con l’impossibile).
La neutralizzazione dei valori
No, lo scienziato può sottrarsi alla presa dei valori non già cancellandoli ma neutralizzandoli, ossia esplicitando fin dall’inizio dove si dirigono le sue simpatie e quali sono le sue aspirazioni (che è operazione di onestà intellettuale); quindi mettendo ogni cura a non confondere in ibrido miscuglio i desideri con i fatti (che è atteggiamento di sobrietà) e poi – cosa che a Bobbio riusciva meravigliosamente bene – censendo con imparzialità tutti gli altri valori coinvolti nella controversia, senza deformarli per amore di polemica o presentarli con una smorfia di commiserazione sulla labbra (che è, invece, postura di equanimità). Equanimità, sobrietà, onestà: non sono proprio queste le condizione di un dialogo proficuo?
Dunque Bobbio fu, sì, uomo del dialogo ma non solo perché così gli comandava l’innato garbo del gentiluomo e la spinta primigenia del cuore; lui fu inclinato al dialogo anche dagli obblighi della scienza e quindi da una certa conformazione dell’intelletto. Intelletto e cuore, perciò. Ecco perché chi ebbe la ventura di conoscerlo gli testimoniava, insieme, affetto ed ammirazione, devozione e considerazione. Da questo punto di vista il libro di Zagrebelsky ne è veramente una bella ed eloquente prova.
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