La narrazione degli “italiani brava gente” ha prodotto un immaginario assolutorio ed edulcorato. In alcuni casi monumenti e opere di quell’epoca possono essere rimossi, in altri vanno risemantizzati
Il 5 ottobre del 2017 sulle pagine del The New Yorker, Ruth Ben-Ghiat, professoressa di storia e studi italiani alla New York University, pubblicava l’articolo Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy?, chiamando gli/le italiani/e a riflettere sulla pervicace e diffusa presenza delle tracce del fascismo nello spazio pubblico in Italia. L’intervento metteva in connessione le iconografie della nuova destra italiana, più o meno dichiaratamente filo-fascista, con una certa amnesia e rimozione collettiva che ha fatto sì che le immagini di una violenta dittatura, possano ancora parlare ad alta voce nel paesaggio italiano.
Ben-Ghiat citava un episodio che segna in maniera grave questa tendenza consolidata ad innocentizzare i resti del fascismo immaginandoli come “innocui” nel presente. Nel 2014 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva presentato la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 nella sala d’onore del Coni a Roma, nel Foro Italico, con sullo sfondo l’enorme dipinto di Montanarini dal titolo difficilmente equivocabile L’apoteosi del fascismo dell’inizio degli anni Quaranta.
In occasione della candidatura italiana a una delle manifestazioni che più dovrebbero esaltare la pace e l’unione dei popoli, una delle massime cariche di una repubblica costituzionalmente antifascista, si presentava con alle spalle l’immagine di un dittatore che aveva prodotto un colonialismo razzista e feroce. Ci possiamo chiedere cosa sarebbe accaduto se la cancelliera Angela Merkel in Germania avesse candidato Berlino alle Olimpiadi del 2024 con alle spalle un dipinto che ritraeva Adolf Hitler?
Revisionismi
Pochi giorni dopo l’uscita dell’articolo del The New Yorker, che ha provocato in Italia reazioni di contrasto molto aggressive, Il 9 ottobre 2017 sul quotidiano Il Sole 24 Ore, nelle pagine del 24 Ore Cultura, rispondeva Fulvio Ierace con un articolo dal titolo: Il populismo giornalistico che ignora i capolavori dell’architettura fascista. Senza entrare qui nel merito dell’articolo per problemi di spazio, è interessante soffermarsi su due parole: l’attributo “populista” e il termine “capolavoro”.
Il primo denota una strategia di revisionismo storico, intrapresa dalla destra neo-fascista già dagli anni Cinquanta, che invertendo i poli della narrazione, indica come propaganda e atteggiamento ideologico qualsiasi forma di posizione schiettamente antifascista, specie nell’ambito della cultura.
La definizione di “capolavoro”, che porta di per sé in Italia spesso l’accrescitivo “indiscusso”, è uno degli strumenti usati dalla destra italiana, e purtroppo non solo da questa, per salvaguardare le opere prodotte dal ventennio dopo la caduta del regime, anche qualora queste manifestino un portato simbolico più che esplicito e violento di esaltazione del regime, e di Mussolini in persona. Il sito della Sovrintendenza ai Beni Culturali parlando di questo dipinto, a proposito della copertura che lo aveva giustamente almeno coperto alla vista per diversi decenni con un drappo verde, parla di un atto di damnatio memoriae e di occultamento dell’opera.
Questo esempio, che potrebbe essere accompagnato da decine di altri nella sola città di Roma – un per tutti ancora il Foro Italico con la storia trionfale delle conquiste coloniali sui cippi di marmo, o con il noto obelisco che recita Mussolini Dux all’ingresso – pone alcune questioni essenziali: le tracce del fascismo hanno ancora un portato simbolico significativo oggi?
Sono “eredità difficili”, secondo la definizione che ne dà Sharon McDonald, cioè oggetti che influenzano la costruzione di un’identità collettiva italiana? Il loro presunto valore artistico è il dato essenziale che finisce per essere più importante dei significati che veicolano?
Defascistizzazione della cultura
La narrazione, purtroppo bipartisan, del dopoguerra in Italia rispetto al ventennio è stata immediatamente quella di un regime che non aveva prodotto una propria cultura, uno stile chiaro e identificabile, e che quindi questa non poteva aver lasciato tracce tanto importanti da essere in qualche modo “pericolose” in epoca post-fascista. E dunque se la defascistizzazione degli apparati dello stato dopo la caduta del regime è stata almeno molto imperfetta, in ambito culturale possiamo dire sia stata pressoché inesistente.
La motivazione purtroppo è fin troppo evidente, la narrazione dell’Italia, sin dal primo dopoguerra è stata quella del paese della Resistenza, che ben inteso è una narrazione più che giusta e importante, ma la si sarebbe dovuta accompagnare da una rilettura critica di ciò da cui i/le partigiani/e ci hanno liberato: una dittatura violenta e imperialista. In questo modo la visione degli “italiani brava gente” – come recita il titolo del primo fondamentale libro dello storico Angelo Del Boca che rivelava le nefandezze del colonialismo italiano – ha prodotto un immaginario assolutorio e edulcorato di tutto quello che il fascismo, e la sua cultura in particolar modo, hanno saputo produrre.
Possibili soluzioni
Resta forte la domanda su cosa fare di queste tracce. Vi sono molte risposte possibili, applicabili di caso in caso. Da un lato, in alcuni contesti, occorre intervenire in maniera radicale e rimuovere, che non vuol dire cancellare ma spostare, trovare una collocazione che permetta un dibattito aperto e continuo togliendo però autorità pubblica all’oggetto; in altri casi occorre invece mantenere ben visibili quelle impronte di un passato che non passa, attuando un processo di risemantizzazione e risignificazione fondamentali.
I processi potrebbero essere il frutto di una concertazione tra le istituzioni e le comunità che ospitano le tracce del fascismo, che portino al coinvolgimento di artisti/e che hanno gli strumenti e le capacità estetiche e simboliche per mettere in atto una rilettura e riscrittura che non cancelli le opere, ma che le tolga da quella patina di innocenza dietro la quale sono state nascoste in bella vista per decenni.
L’esempio di Bolzano
Cito un solo esempio a mio parere davvero virtuoso attuato in Italia, a Bolzano, sul bassorilievo con Mussolini a Cavallo, sul Palazzo di Giustizia (ex sede del Pnf), realizzato nel 1939 dallo scultore Hans Piffrader, e posta sul palazzo in epoca repubblicana nel 1956. Nel 2011 è stato indetto un concorso internazionale per «depotenziare la scultura», vinto dal duo di artisti Arnold Holzknecht & Michele Bernardi, che nel 2017 hanno installato davanti al bassorilievo una scritta al neon della filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt che recita «nessuno ha il diritto di obbedire».
Nella piazza davanti al palazzo è stata posta una lunga teca che spiega scena per scena le storie raffigurate nell’opera originale. L’intervento attuale ridiscute e mette in corto circuito, ma paradossalmente anche in dialogo, l’arroganza del disegno del regime e l’affermazione della scritta sovrapposta.
Arendt sviluppò questo concetto ascoltando il famoso processo al generale tedesco Adolf Eichmann, in cui una sfilza di militari si giustificarono per gli orrori commessi, dicendo che avevano solo obbedito a degli ordini. La scritta al neon, con un gesto semplice ma terribilmente significativo, cancella il motto mussoliniano che recitava: «credere, obbedire, combattere». La teca a terra ha un valore informativo e per certi versi “didattico”, ma simbolicamente serve anche a dire che occorre analizzare e capire per poter davvero decostruire quel tempo.
Di-scordare. Ricerche artistiche sulle eredità del fascismo in Italia (DeriveApprodi 2024) è un saggio di Viviana Gravano
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