Una donna, un uomo, una sala di un museo. La donna è una curatrice museale bianca, l’uomo un (apparente) visitatore nero. La donna è vestita in modo professionale, con il suo bel tailleur scuro e una tazza di caffè lungo americano in mano che dà la misura di un mondo sempre di corsa. L’uomo chiede informazioni su alcuni oggetti. Lei con piglio sicuro sciorina il suo sapere etnografico sui manufatti in questione «tribù Bobo Ashanti, attuale Ghana, XIX secolo....Benin, XVI secolo» e così via.

L’uomo le chiede se è proprio sicura di quel che dice. La donna davanti a questo dubbio, che non si aspetta, sciorina altri dati «questo del Benin, tribù fula credo». L'uomo le risponde un semplice «nahhh». Lui sa che l'oggetto è dei suoi antenati. E oppone all’incredulità della curatrice una domanda: «Come pensa che i suoi antenati se li siano procurati? Pensa che abbiano pagato un prezzo equo?».

Molti hanno già riconosciuto la scena in questione, sanno che è una delle scene chiave del film Marvel Black Panther regia di Ryan Coogler, e sanno che quell’oggetto proviene dalla mitologica Wakanda, un regno che, nella trama del film, è sfuggito alla colonizzazione nascondendosi agli occhi del mondo.

Non a caso questa scena è stata scelta da Giulia Grechi, professoressa di antropologia culturale e antropologia dell’arte presso l’accademia di Brera di Milano, per aprire il suo Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati pubblicato dalla Meltemi editore.

Sconvolgere i piani

Il volume è denso di informazioni, suggestioni, suggerimenti. Grechi si chiede in che modo curare il corpo-museo dalla necropolitica coloniale che lo afflige. Ovvero da quel senso di morte, distruzione e sopraffazione che è di fatto la culla in cui è nato e cresciuto il museo etnografico occidentale. Come nella scena di Black Panther Killmonger, l’uomo che pone quelle domande ficcanti alla curatrice del museo etnografico, non è un fastidio o peggio un corpo estraneo al sistema museo. Ma pone di fatto delle questioni a cui un museo moderno, non solo etnografico, oggi è chiamato a rispondere.

La sua presenza, spiega Grechi, mette in discussione l’impianto epistemologico di un museo che ha trasformato la discriminazione e l’inferiorizzazione dell’altro in sapere scientifico. Nel film l’afroamericano Killmonger sconvolge i piani e porta dentro quella sala, davanti a quella curatrice, e in generale dentro il corpo del museo, il suo sapere affettivo.

Gli oggetti bruciano di rabbia e disperazione. Sono oggetti violentati, depredati dalla colonizzazione, oggetti strappati dai propri affetti e dalla propria vita quotidiana. Oggetti che sono appartenuti a dei popoli che sono stati spazzati via o ridotti in catene. Sono oggetti che il sapere scientifico ha di fatto svuotato e facendone feticci di una pretesa superiorità occidentale. Grechi di fatto si chiede come i musei in giro per il mondo occidentale, nati dentro una cornice imperialista, possano liberarsi da questo portato tossico.

Come può fare un museo a risemantizzare i discorsi, gli oggetti, i corpi e lo spazio? Il libro (e va detto un volume su questi argomenti così completo e approfondito mancava in Italia) ha al centro parole come cura, affetto, sentimento. L’obbiettivo di Grechi è vedere non il museo come oggetto, ma come spazio dove si sono svolte (e si stanno ancora svolgendo) pratiche egemoniche e razzializzanti che Grechi naturalmente critica. Ma è anche un sistema museo in trasformazione che nel futuro può diventare uno spazio di elezione non solo per le contronarrazioni, ma per una vera e propria decolonizzazione. E non è un caso che un volume così importante sia uscito adesso, quando il mondo museale si è finalmente guardato dentro.

Restituzione sentimentale

Come ricorda Anna Chiara Cimoli nell’introduzione al volume di Giulia Grechi in questo periodo, causa Covid, siamo usciti poco, ma in quel poco abbiamo visto una umanità in rivolta «statue abbattute, musei occupati, piazze attraversate da manifestazioni di protesta» dove chi era stato reso oggetto dal colonialismo e dalla tratta atlantica, oggetto razzializzato e sfruttato, ora chiede una centralità, una restituzione sentimentale dei torti subiti dagli antenati. Il museo è specchio della società e naturalmente un cambiamento va affrontato anche da queste strutture.

Dall’omicidio di George Floyd, un dialogo che era solo per gli addetti ai lavori, è diventato discussione pubblica, e sono tanti i musei che stanno rinnovando il linguaggio, il modo di esporre e finalmente dal Belgio alla Germania si sta aprendo una seria discussione sulle restituzioni di manufatti sottratti con la violenza a popolazioni autoctone di Africa, Asia e America Latina. L’Italia è entrata in questa discussione globale grazie al processo di rinnovamento del museo italo-africano “Ilaria Alpi” di Roma.

Questo progetto ha destato l’interesse di molti media internazionali, in molti si sono chiesti come mai in un momento in cui lo spazio museo era messo così tanto in discussione, in Italia si procedeva a una nuova apertura. Questo diventa chiaro parlando con le curatrici Rosa Anna Di Lella e Gaia Delpino. Perché il progetto incarna quello che l’antropologa Giulia Grechi ha raccontato nel suo volume, ovvero creare un museo decoloniale, dove lo spazio museale non è più egemonico, ma un punto di incontro, di dibattito, un luogo di pluralità e rispetto.

L’idea del museo italo-africano, ci racconta una delle curatrici Rosa Anna Di Lella viene dal lontano 2010. Le collezioni del museo coloniale di fascistissima memoria oggi si trovano nei depositi del museo delle Civiltà nel quartiere Eur di Roma, e proprio una delle ale del museo sarà lo spazio dedicato a queste collezioni. Prima le collezioni erano depositate a palazzo Brancaccio ovvero nella sede del museo di arte orientale e tutto versava in condizioni precarie. Si è deciso in quel periodo di trasferirle all’Eur per restaurare, risistematizzare e archiviare.

È stato il direttore Filippo Maria Gambari, che nel 2020 è deceduto a soli 66 anni a causa del Covid-19 lasciando un enorme vuoto affettivo e professionale, a pensare di creare uno spazio museale ad hoc a queste collezioni. Gambari vedeva la risistemazione di queste collezioni in un progetto più ampio che comprendeva anche la riapertura del museo di arte orientale di via Merulana. Entrare a vedere i depositi di questo futuro museo italo-africano è di fatto come fare un viaggio nel tempo e dentro la storia di un colonialismo, quello italiano, rimosso o edulcorato.

Cautela

Depositi pieni di paramenti sacri, pelli di leopardo, quadri orientalisti, fotografie, documenti, persino sacche con fagioli dell’occhio provenienti dalla Somalia o farina di teff dall’Etiopia. Materiale del fu museo coloniale, dove ogni oggetto, persino i fagioli, erano un modo per fare propaganda al fascismo. Non a caso la curatrice Rosa Anna Di Lella, dice che «la collezione è in qualche modo tutta sensibile. Perché parla di una memoria scomoda. Anche l’oggetto che sembra più neutro se inserito all’interno di quel contesto di acquisizione e di raccolta ha un potenziale di violenza, di sopraffazione molto elevata, quindi è tutta la collezione a essere molto delicata». Per questo la parola più usata dalle curatrici è «cautela», c’è cautela nell’osservare gli oggetti, analizzarli e poi immaginare come esporli.

Non si nascondono la nascita tossica di tutti i musei etnografici, nati durante l’imperialismo per glorificare quell’atteggiamento di arrembaggio coloniale verso l’altro. Non a caso molti degli oggetti che le curatrici si sono trovate a maneggiare parlavano direttamente di quella conquista coloniale sia liberale che fascista. Pensiamo solo agli oggetti appartenuti a personaggi celebri della resistenza anticoloniale, come per esempio quelli del leader della resistenza in Cirenaica Omar al-Mukhtār. Oggetti che erano arrivati per essere esposti come bottini di guerra. Ecco perché nell’orizzonte di questo museo c’è non solo l’esposizione, ma anche l’idea di fare di questa collezione oggetto di condivisione tra artisti, studiosi (soprattutto studiosi dei paesi che hanno subito la colonizzazione). E mettere anche a punto la restituzione di alcuni oggetti.

Sulla restituzione non è il museo a decidere, si passa da una richiesta diretta dei paesi e dal confronto con il ministero degli Esteri italiano, ma c’è sicuramente, come spiega la curatrice Di Lella, un parere «decoloniale» che il museo dà sui singoli oggetti. La problematicità di molte delle cose che fanno parte della collezione rimane, come per esempio i calchi facciali in gesso policromo che l’antropologo Lido Cipriani, uno dei firmatari del manifesto della razza, ha realizzato per catalogare le popolazioni africane. Una pratica violenta che nella realizzazione poteva portare alla morte, infatti si poteva soffocare sotto quel gesso. Ed è di fatto un inno al razzismo visto che lo scopo era classificare secondo gerarchie razziali. I calchi di Cipriani sono per le curatrici del museo un nodo da sciogliere, qualcosa da mettere al centro di un dibattito all’interno e all’esterno del museo.

Una realtà dinamica

Per questo l’obbiettivo è quello di creare non solo un museo decoloniale, ma un museo dinamico, «anche nella progettazione» spiega Rosa Anna Di Lella «abbiamo immaginato degli exibit, delle vetrine, dei supporti per gli oggetti che siano il più possibile dinamici e modificabili, perché immaginiamo un museo che non è uguale a sé stesso nel tempo. Quindi immaginiamo una prima esposizione che farà da base a ulteriori inserimenti e alle trasformazioni nel tempo. E per gli oggetti più sensibili ragioneremo soprattutto facendo dei workshop e aprendo, quando la pandemia ce lo permetterà, agli esterni per ragionare in modo collettivo».

Il museo, la cui apertura è slittata a causa del Covid, ha in sé anche la possibilità di essere un centro di raccolta. Infatti dall’annuncio della sua nascita ha ricevuto da molte famiglie italiane gli oggetti che i nonni, i padri, gli zii e i prozii, militari e civili impegnati nella campagna mussoliniana per l’invasione dell’Etiopia, si sono portati dietro una volta tornati in patria. Piccoli oggetti di artigianato, armi che probabilmente sono state razziate in battaglia o anche diari di guerra, albi illustrati, stoffe. La restituzione al museo serve alle famiglie per chiudere un cerchio e chiedere scusa per quello che i propri famigliari hanno compiuto in quelle terre che hanno subìto la colonizzazione italiana. Sono tanti gli oggetti donati tanto che il museo sta ragionando come esporre anche questi manufatti.

Di fatto la nascita del museo italo-africano risponde a quelle esigenze di cura di cui parlava Giulia Grechi nel suo volume Decolonizzare il museo. Non è un compito facile. Le curatrici ne sono consapevoli. Ecco perché pongono molta attenzione non solo agli oggetti, ma a come l’oggetto è arrivato in Italia. Non a caso Grechi nel suo volume ricorda che per decolonizzare il museo serve «una prassi di analisi (auto)critica e riflessiva, e la disponibilità a confrontarsi a partire da quegli oggetti, con diversi soggetti, con diversi punti di vista e diverse competenze». In poche parole non può esserci un museo decoloniale senza pluralità e diversity. Ed è questa la novità del museo italo-africano la ricerca di una pluralità necessaria per traghettare il museo etnografico verso un futuro libero dalle tossicità coloniali del passato.

© Riproduzione riservata