Se c’è un simbolo della modernità, un oggetto che ha più di tutto – anche e prima degli elettrodomestici – certificato l’avvento del benessere, quello è il contenitore per alimenti della Tupperware che si palesa nelle case degli italiani dagli anni Sessanta, divenendo un elemento irrinunciabile. Al punto che il marchio finisce per identificarsi con l’oggetto vero e proprio: «Passami il tappeuer», diceva mia nonna Anna sempre prodiga di avanzi succulenti che venivano subito collocati nella coloratissime scatolette con coperchio a pressione.

Quei contenitori dicevano due cose, la prima che dopo anni durissimi e letteralmente da fame ora addirittura avevamo gli avanzi e non poca roba, veri e propri pasti completi per cui non era più adatta la vecchia credenza in legno con gli sportelli in vetro (divenuta poi oggetto di antiquariato) fino ad allora unica protagonista della cucina. Ora i contenitori della Tupperware con la complicità del frigorifero (e del freezer) potevano garantire la conservazione del cibo e la sua relativa distribuzione futura.

E poi ci dicevano che la cucina andava trasformandosi, mutava come mutava la società. Non più un luogo di trasformazione ed elaborazione del cibo, ma principalmente luogo della sua conservazione e al massimo del suo rapido consumo. Il microonde era ancora da venire, ma la direzione era presa. Forse è un po’ drastico ammetterlo, ma la cucina, da luogo vitale e creativo, diveniva così un vero e proprio obitorio alimentare. Regno dei cibi conservati con l’unico guizzo oggi previsto nella ridicola pretesa culinaria di una goffa friggitrice ad aria.

Negli anni i contenitori sono variati di forma e di colore, in alcuni casi sono diventati più cool con nuance pastello e forme più adatte anche per il trasporto. Tuttavia quelli degli anni Sessanta restano ancora i più belli, i più gioiosi, nonostante l’inquietante perdita di colore della plastica che evidentemente ha arricchito il cibo contenuto e il suo relativo gusto.

La notizia dell’accesso al chapter undici della Tupperware, che avrebbe addirittura un debito intorno alla decina di miliardi di dollari, apre prospettive sorprendenti in una società che non sembra davvero più avere il senso della misura, se pure un’azienda di contenitori di plastica può raggiungere un tale stato di crisi. La Tupperware, con sede in Florida (e dove se non nello stato americano della seconda vita, là dove gli anziani benestanti vanno a svernare in lino – o per lo più in misto lino – con una giovialità degna di Cocoon), dice di voler proseguire il risanamento e la riorganizzazione aziendale, che assume però l’inquietante immagine di uno spezzettamento delle sedi e forse anche dei dipendenti, da disporre poi elegantemente nei vari contenitori.

Da questo punto di vista come non credere alla ceo Laurie Ann Goldman che con aria gioviale appare convinta in un rilancio a breve termine. Resta però lo shock, non tanto per la scomparsa proprio di un’azienda di contenitori di dieci miliardi di dollari, a quanto pare svaniti nel nulla, ma della fine del contenitore come concetto, come spazio per la distribuzione e l’elaborazione dei contenuti. Perché la distanza tra la morte del varietà del venerdì sera e della Tupperware è più breve di quanto si possa immaginare.

Piattaforme

Evidentemente anche la società della conservazione si sta esaurendo, dopo aver esaurito a sua volta e sostituito quella dell’elaborazione. O più semplicemente, non avendo più elaborato nulla, non si ha più nulla da conservare. E questo rende icasticamente evidente quella che è la situazione culturale contemporanea, dove non esiste più la televisione generalista, ma esistono le piattaforme, anche se poi le piattaforme stesse dopo un inizio strombazzante hanno di molto ridotto la produzione di contenuti. Il cinema non ha più sale, le librerie non hanno più catalogo, almeno là dove ancora cinema e librerie resistono faticosamente.

I teatri invece vivono in uno stato precario e fragile ormai da prima del Novecento, e ogni intuizione innovativa è stata istituzionalizzata come nel caso del Piccolo di Milano, che ora annovera tra i suoi consiglieri d’amministrazione anche il non certo ininfluente avvocato Geronimo La Russa, figlio del presidente del Senato, e già (Geronimo) presidente dell’Aci Milano e già nel consiglio d’amministrazione dello stadio Meazza di Milano, tutte cose evidentemente affini con il teatro o quanto meno dei contenitori. E non meglio è andata al San Ferdinando di Napoli rifondato a suo tempo da Eduardo De Filippo, la cui lezione, come ricordava spesso il figlio Luca, non è mai stata realmente compresa e accettata.

La crisi dei contenitori dunque è sostanziale e va ben al di là delle simpatiche scatolette di plastica, se teatri, stadi, cinema, biblioteche, schermi piatti e tutto quello che può ospitare forme di cultura e spettacolo non solo appaiono in grave crisi, ma sembrano incapaci ormai di ospitare un discorso culturale che sia contemporaneo e attraente per il pubblico.

Qualche anno fa un convegno alla Triennale di Milano teorizzò e prospettò l’ipotesi di cosiddetti (tristemente) “Nuovi Centri Culturali”, contenitori che declinavano in forma materiale lo scambio immateriale generato dalla facilità di accesso culturale del digitale. Tuttavia quello che pareva un movimento virtuoso sembra essersi poi arreso alla durezza dei conti economici (ben prima della Tupperware) oppure si è fortemente istituzionalizzato, magari anche accogliendo virtuosamente le necessità sociali del territorio, ma divenendo più un luogo tipico del terzo settore che dell’elaborazione e della produzione culturale.

Gli archivi

Non mancano però iniziative controcorrente, alcune spesso coraggiose e forse utopiche, altre con ambizioni commerciali più spiccate. In mezzo a questo mare confuso risulta necessario riorientare il proprio sguardo, ed è quello che fa la studiosa Chiara Faggiolani con Il problema del tempo umano (Edizioni di Comunità), che partendo dalle biblioteche di fabbrica concepite da Adriano Olivetti (sì, sempre lui) riflette sulla necessità di una nuova modalità di fruizione culturale che si leghi a spazi adatti ai propri utenti. Un ritorno necessario al concetto di cittadinanza culturale che prova a mettere in luce l’importanza dell’istituzione bibliotecaria sul territorio italiano, a oggi poco considerata e negletta, ma spesso unico vero presidio culturale realmente accessibile a tutti. Luoghi anche definiti da Antonella Agnoli come La casa di tutti (Laterza), in un libro in cui prospetta un’idea di biblioteca innovativa e accogliente capace di superare i vincoli di un semplice luogo di lettura o di raccolta di volumi.

E proprio queste riflessioni arrivano a cogliere il senso di una possibile inedita archeologia culturale che riporti il contenuto all’interno di spazi fruibili, ovvero ripartendo dall’importanza nodale degli archivi quali veri e propri giacimenti d’ingredienti fondamentali per immaginare i nuovi cibi per la mente. Gli archivi e la loro accessibilità divengono oggi l’elemento dirimente per poter dare forma a nuovi immaginari. Luoghi basilari per poter accedere consapevolmente a un catalogo che permetta al tempo stesso la sua messa in discussione attraverso inedite elaborazioni. Archivi impossibili (Johan & Levi), li ha così definiti nel suo libro Cristina Baldacci, che, pur orientando il discorso attorno all’arte contemporanea, tocca questioni urgenti per chi oggi si occupi di produzione di contenuti tout court.

Gli archivi sono luoghi attraversati da tracce e residui che vanno interpretati correttamente per poi poter essere riutilizzati fino a diventare nuovamente oggetti di senso completi e condivisibili. Un po’ come accadeva con il cibo avanzato che una volta distribuito tornava a essere un pranzo completo con in più il sapore famigliare di una festa passata.

Difficile sapere se ci sarà un futuro per la Tupperware (ce lo si può augurare per i suoi dipendenti), ma di certo quei contenitori rappresentano ancora una possibilità di traduzione da un tempo a un altro, quello contemporaneo, in cui conservazione e cura divengono sinonimi di cultura.

© Riproduzione riservata