Ci sono marchi così famosi che con il tempo finiscono per prestare il proprio nome all’oggetto che producono e commerciano. Così è stato per Scottex, ad esempio, o per Tupperware, nota in tutto il mondo per i suoi colorati contenitori per alimenti, tanto da essere già esposti in molti musei del mondo. Si dice che anche la regina Elisabetta conservasse i suoi cornflakes in queste ciotole.

L’azienda statunitense leader per i piccoli recipienti di plastica ed ermetici è ormai in crisi da anni, e il 17 settembre è stata costretta a chiedere una procedura di fallimento controllato per evitare la bancarotta, ricorrendo al Chapter 11, la legge americana sui fallimenti.

«Con Tupperware fallisce un brand che ha fatto la storia dell’oggettistica, ma sicuramente non muore l’idea di mettere il cibo nei contenitori di plastica», spiega Gian Paolo Lazzer, professore di sociologia dei consumi all’università Ca’ Foscari di Venezia.

La società ha debiti per 812 milioni di dollari ed è dal 2022 che non pubblicava più i suoi conti, dopo aver chiuso il bilancio con un fatturato di 1,3 miliardi: il 43 per cento in meno rispetto a soli cinque anni prima. Il boom registrato in pandemia non è bastato a sistemare i numeri, e così Tupperware si trova ora alla ricerca di nuovi acquirenti per rilanciarsi. A pesare è stata sicuramente la concorrenza di prodotti simili ma più economici e l’assenza di rinnovamento del suo modello di business e di marketing.

Se con Tupperware non scompariranno i contenitori di plastica (le “schiscette”, come si chiamano a Milano), il suo fallimento è una spia per ragionare sui tempi che cambiano, perché un bene di consumo è spesso anche una metafora culturale. «Quando si analizza un oggetto ci sono tre aree da monitorare: l’uso che se ne fa, le caratteristiche e il significato socioculturale», ragiona Lazzer. «Il Tupperwere – aggiunge – è continuato a rimanere un contenitore, ma il concetto di famiglia e di madre casalinga che cucina è cambiato fortemente negli anni».

La storia 

Un Tupperware Party (foto Wikimedia)

Quando Earl Tupper ha fondato l’azienda, nel 1946, l’idea di una ciotola di plastica che si poteva sigillare con un coperchio era a modo suo rivoluzionaria ed è stata salutata dalle donne con grande entusiasmo. Dava la possibilità di conservare a lungo gli alimenti, in un periodo storico – quello del secondo dopoguerra – in cui i frigoriferi o altri strumenti non erano tanto diffusi. «Oggi quella madre lì, casalinga e che si occupa esclusivamente della cura della casa e di quel che le ruota attorno, esiste sempre meno», sottolinea Lazzer.

Tupperware negli anni è diventato un marchio parte della storia delle donne, e anche della loro emancipazione. Non solo per il contenitore in sé, ma anche per l’innovativo modello di vendita dell’azienda che, per i tempi, rappresentava una piccola rivoluzione copernicana che avrebbe fatto scuola. Uno dei tanti segreti del suo successo, infatti, sono stati i cosiddetti “Tupperware party”, vere e proprie feste organizzate in appartamenti. Con uno scopo, far comprare contenitori, e una caratteristica fondamentale: le vendite erano appannaggio di sole donne.

L’idea si deve a una signora divorziata di Detroit, Brownie Wise, che già vendeva durante party organizzati in casa propria prodotti di pulizia e che ha deciso di estendere con successo la tecnica anche ai Tupperware, facendolo diventare il principale modello di marketing dell’azienda. Questo ha permesso a centinaia di donne senza lavoro di mettersi in proprio e guadagnare con le commissioni sulle vendite ma anche, al di là dei suoi fini commerciali, di creare spazi di socialità.

Nel giro di qualche anno è nato un esercito di casalinghe-venditrici, e le merende a base di tè e pasticcini nei salotti, con gli immancabili contenitori in bella vista, hanno conquistato le case di mezzo mondo. Nonostante negli ultimi anni l’azienda avesse tentato di evolversi, puntando su canali più tradizionali di vendita come i negozi, il numero dei venditori “porta a porta” è continuato a rimanere altissimo: nel 2022 se ne contavano 284mila ancora in attività, la metà concentrata in sud America.

Il mondo che cambia

«Oggi se devo comprare un recipiente vado alla Lidl o a Tiger, sicuramente non a una festa. Anche questo ha pesato nel fallimento del marchio, ora è impensabile avere successo in questo modo», spiega il professor Gian Paolo Lazzer della Ca’ Foscari. Anche secondo questo profilo Tupperware ha un posto di diritto nella storia, perché ha rappresentato un primo esempio di economia piramidale, o marketing multilivello: tecniche di vendita che si distinguono per un rapporto diretto con il consumatore e perché i venditori guadagnano sia sulle vendite dirette che su quelle effettate da altri sotto di sé. Un modello seguito da tante altre realtà, come ad esempio Avon, o Herbalife e Yves Rocher (tra l’altro il ceo di Tupperware, Miguel Fernandez, nel 2020 è entrato a far parte di Avon e di Herbalife).

Il fallimento di Tupperware come segno dei tempi che cambiano. E l’uso dei contenitori ermetici di plastica come metafora di alcuni cambiamenti: «Oggi questi recipienti non sono più oggetti per conservare ma sono strumenti di trasporto – continua Lazzer –. In molti, me compreso, li portano dietro per pranzare al lavoro. È legato ai costi, perché mangiare fuori non è economico, e all’attenzione per il proprio benessere fisico perché in questo modo posso portarmi cose salutari da casa. Ma anche alle strutture aziendali: un tempo tutte avevano una mensa, oggi ci sono molti più spazi comuni ed è normale portare cose in ufficio», conclude.

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