Quante volte pensi all’impero romano? Sull’onda del più recente tormentone della Rete, uno dei più folli degli ultimi anni, e con in mente le risposte incendiare date da Alberto Angela in prima serata su Raiuno («Penso all’Impero Romano 50 volte al giorno... non c’era razzismo... le donne erano emancipate... il sesso era libero, non c’era omo, etero e bi»), siamo andati a vedere il Giulio Cesare in Egitto di Händel nella messinscena di Damiano Micheletto all’Opera di Roma.

Edizione con ben quattro controtenori protagonisti, la new wave del canto lirico gender, accanto a una Cleopatra spiccia di modi e poco vestita. Dramma barocco esotico sulla nascita dell’amore tra Cesare e Cleopatra in terra d’Egitto dopo la lunga guerra a Pompeo. Molto rappresentato, uno dei più noti del compositore inglese, che negli ultimi decenni ha seguito il percorso di riavvicinamento filologico all’originale che interessa tutto questo tipo di repertorio tornato parecchio di moda.

Opera queer

Giulio Cesare fu scritto al tempo dei castrati: nel suo teatro londinese Händel poteva contare su una star internazionale come l’italiano Francesco Bernardi detto Senesino per la parte di Cesare e Gaetano Berendson come Tolomeo, il malvagio faraone ragazzino che taglia la testa a Pompeo e la serve al capo romano come pegno di alleanza.

Entrambi ci vengono descritti nelle cronache dell’epoca come vocalmente straordinari, lo testimoniano ancora le tessiture delle arie, meno dotati fisicamente come attori. Nello stesso esordio del 1724m Sesto il giovane figlio di Pompeo che brama vendetta per il padre ucciso, è la soprano Margherita Durastanti in drag, un’altra star italiana chiamata da Händel a Londra, «rozza e mascolina» in scena.

La presenza dei castrati italiani sulle puritane scene inglese del primo Settecento era di per sé queer, come lo era tutta l’opera di stile italiano che Händel aveva ascoltato e rielaborato vivendo proprio a Roma, acquistando in questo modo l’inarrivabile dolcezza di tante sue melodie.

Mary Bevan e Raffaele Pe in Giulio Cesare in Egitto (ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma)

Meno queer dal punto di vista narrativo, tutto sommato, il libretto di Nicola Haym ripercorre senza strappi la vicenda del conquistatore conquistato dall’ambiziosa Cleopatra, ma salvato dal complotto ordito dal fratello di lei Tolomeo grazie all’alleanza col figlio e la vedova del suo ex nemico Pompeo.

Vero e proprio ring per l’esibizione di passioni forti e chiare: l’amore e la vendetta, la forza e la rabbia, un’aria alla volta  com’era nelle regole del gioco, col celebre meccanismo del da capo croce e delizia di tutti i registi moderni dal momento che durante la ripetizione variata della prima strofa il tempo si ferma, anzi si avvolge su sé stesso.

Controtenori

Aryeh Nussbaum Cohen in Giulio Cesare in Egitto (ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma)

A tre secoli di distanza dall’esordio londinese, dopo tanti soprano travestiti e tenori riadattati, nelle parti principali di questo Giulio Cesare troviamo esclusivamente controtenori: il Giulio Cesare di Raffaele Pe, il Sesto di Aryeh Nussbaum Cohen, il Tolomeo di Carlo Vistoli e, tra i rincalzi, il servitore Nireno di Angiolo Giordano.
Questa è a suo modo una notizia, se non un record: l’anno scorso a Parigi con la stessa regia di Michieletto Giulio Cesare era il soprano Gaelle Arquez.
Tutti trentenni dai mezzi vocali prodigiosi e fisici sportivi: siamo alla terza generazione dai tempi dei compassati pionieri inglesi degli anni Sessanta come Alfred Dellar e James Bowman, e i controtenori sono oggi l’avanguardia più scatenata del canto lirico. Fanno interviste sui magazine patinati, postano su Instagram, compaiono in tv. È stata organizzata in loro onore dall’Opera di Roma persino un recital collettivo, la “notte dei tre controtenori”.

E in questo nuovo sound si possono iniziare a distinguere sfumature e colori delle voci di ciascuno. Ha particolarmente conquistato il pubblico romano l’americano Cohen per rotondità e calore, sia nelle parti agitate dalla sua sete di vendetta (L’angue offeso), sia nel lungo e dolente duetto a metà del secondo atto con la madre Cornelia, il contralto Sara Mingardo (Son nata a lagrimar), che è una delle grandi pagine dell’opera.

Carlo Vistoli in Giulio Cesare in Egitto (ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma)

Pure la furia del Tolomeo di Vistoli  – che quasi ricorda nel ciuffo biondo un giovane Morgan – è riuscita nel suo intento di cattivissimo della storia. Scritto da Händel con punte di isterismo, dongiovannismo e confusione adolescenziale, rappresentati da lunghe sequenze di coloriture assassine, la sua parabola si apre col taglio della testa di Pompeo e arriva alla molestie crudeli alla sua vedova.
Più compassato e geometrico, ma ricco di affetti come richiede la parte da protagonista, il Giulio Cesare di Raffaele Pe, che alla figura del condottiero romano nel melodramma barocco ha dedicato di recente un disco intero: A Baroque Hero.

La Cleopatra di Mary Bevan, soprano inglese trentenne che si divide tra repertorio barocco e impressionismo (molto bello il suo album recente Vision Illuminee), fa la seduttrice-attrice perennemente in scena e in sottoveste, coi capelli tagliati e raccolti per infilare senza fatica una parrucca nuova. Ha scelto il potere (e l’amore, o entrambi) invece dell’ago e del fuso, come l’accusava maligno il fratello Tolomeo.

Per avvicinare Cesare si finge la cameriera Lidia. Questi risponderà indifeso e goffo di fronte alle arti della seduzione. Tra la guerra e la politica, le preoccupazioni del potere e quelle dell’amore, perde colpi inevitabilmente, o forse ha altro a cui pensare: «Misera vita! oh, quanto è fral tuo stato!/ Ti forma un soffio, e ti distrugge un fiato», lo abbiamo sentito cantare in un’altra delle grandi arie Händeliane ispirata dal ricordo di Pompeo.

Pubblico nuovo

Mary Bevan in Giulio Cesare in Egitto (ph Fabrizio Sansoni-Opera di Roma)

Spiega Damiano Michieletto che il Giulio Cesare di Händel è un uomo di mezza età, che ha vinto tutto e ora assiste agli eventi provocati dall’ambizione e dalla gioventù degli altri personaggi. Dice: «La sua figura mi ricorda il film Lost in translation (...) Bill Murray grande attore a fine carriera che si trova a fare la pubblicità per la tv (...) e nel bar di un grande hotel di Tokyo incontra Scarlett Johansson».

Per il regista veneziano la rilettura di ogni opera ha poco e niente di filologico, più spesso è una trovata da semiotici creativi, da pubblicitari scaltri: così una sua Boheme di dieci anni fa era una specie di Trainspotting, il film; un Rigoletto ripreso di recente in tv al Circo Massimo un «noir ambientato nel mondo criminale degli anni Ottanta». E così via.Senza troppo esagerare, per tener basse le infinite polemiche su (contro) i registi d’opera, terreno particolarmente caro agli ascoltatori perennemente indignati o così cinici da apprezzare piuttosto il camp e i robivecchi.

Allo stesso tempo la necessità mettersi in sintonia con un pubblico nuovo, magari dai gusti più semplici, meglio disposto. In sintonia anche con la cultura e l’ambizione dei nuovi interpreti, controtenori oppure no, pronti in  questo Giulio Cesare a cantare in precario equilibrio legati al fondo della scena da grossi fili elastici rossi: i fili della vita, l’inevitabilità del destino.

Questo mood sottolinea altre celebri pagine händeliane di malinconico languore, come le arie della vedova Cornelia, e quella celebre di Cleopatra a un passo dalla finale disperazione, Piangerò la sorte mia. Sorte rimandata, ma di poco. Negli anni Novanta, in una delle più celebri messinscena moderne di quest’opera, il vulcanino Peter Sellars spostava la vicenda in un presente con gli americani al posto dei romani e un generico Medio Oriente in luogo dell’Egitto, senza lesinare in colori e follia, dai carri armati in scena alle cuffiette in testa al faraone ragazzino Tolomeo.
A Glyndembourne nel 2015 il regista McVicar aveva aggiornato la vicenda ai tempi dell’impero britannico, con tanto di balletti stile Bollywood.

Altri tempi. Mentre l’Egitto torna al centro della scena, la regia di Michieletto cancella la tentazione geopolitica, mette i personaggi in abiti moderni dentro una grande scatolone bianco e tiene sul fondo oscuro della scena i loro pensieri e premonizioni, l’aggirarsi delle figure del destino e della morte: le Parche, i congiurati, il fantasma e persino la statua di Pompeo sotto la quale Cesare sarà ucciso quattro anni dopo. Un gomitolo dei fili rossi che attraversano il buio come un osceno Matrix.

© Riproduzione riservata