Per l’estate nutro sentimenti simili a quelli che cantava Bruno Martino, perlopiù la odio. È un rancore che ha molto a che fare con la mia pressione bassa e con il fatto che sudo come un maiale, e allargando lo sguardo è soprattutto consequenziale alla mia collocazione geografica. A Milano fa caldissimo, a Parma dai miei non c’è l’aria condizionata, così passo queste settimane in attesa, aspettando le vacanze o la morte, qualunque cosa arrivi prima.

Tra luglio e agosto la Pianura Padana andrebbe evacuata, invece anche quest’anno io sono qui, a trascinarmi con delle borracce di magnesio per le strade deserte del mio quartiere di ricchi, i cui residenti si sono trasferiti in Sardegna a giugno, mentre io mi chiedo se in una vita precedente fossi un gerarca nazista e quali peccati io debba espiare.

L’ipotesi di una punizione cosmica si è fatta più plausibile quando questa settimana mi sono trovata a camminare scalza sull’asfalto rovente, un’esperienza che mi mancava e che non avevo messo in conto quel giorno, uscendo di casa preventivamente stufa della vita.

Il mio problema con Vinted

Andiamo con ordine: ho un problema con Vinted. Da quando esiste questa app, che mi permette di vendere ma soprattutto comprare vestiti molto belli a prezzi molto vantaggiosi, non sono più entrata in un negozio fisico. Non solo: giudico con estrema severità chi ancora li frequenta, sentendomi portatrice di un tratto evolutivo che mi classifica come essere umano superiore alle povere sceme che ancora vanno da Zara. E questo forse è il primo strike con il karma.

Detto ciò, questo mese rintraccio su Vinted un paio di sandali di The Row, che per chi non lo sapesse è il marchio di moda delle gemelle Olsen, sacerdotesse della coolness minimale. Sono dei sandali molto semplici, ma molto costosi. Sui vari siti ufficiali si trovano a più di mille euro, su Vinted – per qualche insondabile ragione – stanno a settanta. Il mio primo pensiero è: “truffa”. Ma nelle foto la suola è intonsa, il logo è quello giusto, e chi sono io per snobbare un falso ben fatto? Getto il cuore oltre l’ostacolo e li compro.

Per la settimana che segue sono in tensione, mi chiedo se riceverò mai questi preziosi sandali, o se la venditrice mi spedirà un paio di Havaianas fingendo di essersi sbagliata. Il caldo è intollerabile, ma la piccola illusione di aver fatto un affare mi tiene in vita. Non posso schiantare prima di ricevere questo benedetto pacco.

Poi il pacco arriva e, improvvisamente immune alla calura delle tre del pomeriggio, mi dirigo al punto di ritiro, un negozio di toner e cartucce per stampanti a dieci minuti da casa mia, che non grida esattamente alta moda ma che in questi anni ha visto passare molti dei miei ottimi acquisti.

Ritiro il pacco con mani tremanti, lo aprirei per la strada se solo la signorina francese che me l’ha inviato non l’avesse sigillato con molti giri di nastro adesivo e con la perizia che mi immagino si riservi all’occultamento di un cadavere. Vorrei condividere questo momento con qualcuno, ma per strada non c’è nessuno, stanno tutti in Liguria.

Il messaggio 

Mentre allungo il passo per tornare a casa dalle mie forbici, l’universo decide di mandarmi un messaggio. Il messaggio è “devi andare al mare, cretina” e arriva forte e chiaro sotto forma di un sandalo rotto. Non quello nella scatola, che a questo punto è un sandalo di Schrödinger – esiste e non esiste allo stesso tempo – ma quello che ho ai piedi. La fascia che normalmente garantisce l’aderenza del mio piede alla suola si apre, terminando così la sua funzione di calzatura e trasformandosi in un inutile orpello che mi pende dalla caviglia.

Mi guardo intorno in cerca di aiuto o quantomeno di comprensione, ma non c’è nessuno, sono tutti a Chamonix. Così, sola al mondo, comincio a trascinare il piede come Kaiser Soze, cercando di usare quello che resta del mio sandalo come una pattina.

Faccio cento metri in dieci minuti, neanche sui gomiti andrei così lenta, ed è quell’ora del giorno in cui Studio Aperto ti consiglia di non uscire, e io sono sotto al sole, disidratata e a capo scoperto, vicina eppure lontanissima da casa mia. Mentre comincio a sentirmi come quel tizio di 127 ore, in panne su un marciapiede assolato, prendo una decisione esecutiva per uscire dall’impasse e rimuovo definitivamente quel ricordo di scarpa che mi porto dietro.

“Corri”, mi dice adesso l’universo, mentre scopro dalla mia pianta del piede che la temperatura dell’asfalto in un pomeriggio d’estate è la stessa della superficie del sole. Sempre più sciancata procedo zoppicando in punta, chiedendomi quali malattie prenderò e a quale altezza dovranno amputarmi la gamba.

C’è di buono che il fuoco ammazza i batteri e grazie a questa passeggiata sui carboni ardenti il mio piede sinistro non è mai stato più sterile di così. Non mi sfugge l’ironia di stringere tra le mani un paio di scarpe a cui non ho accesso, un contrappasso infernale che assomiglia molto a morire di sete in mezzo al mare.

Come Genoveffa

Quando arrivo a casa mi avvento sulle forbici ancora prima di mettere il piede a mollo nella varechina. Devo aprire il pacco, scoprire se ne è valsa la pena, anche se a questo punto la giornata ha preso una piega che mi lascia poche speranze. E invece l’universo mi premia con il paio di sandali di The Row (o una loro copia eccellente). Sono immacolati, profumano di pelle, quasi non sento più l’odore di carne alla griglia che arriva dal mio tallone ustionato.

Dopo molte passate di pietra pomice finalmente me li provo e realizzo che non mi stanno, forse perché sono fatti per i piedi anoressici delle Olsen, forse perché il mio piede traumatizzato è talmente gonfio che ha preso due taglie in più, fatto sta che sembro Genoveffa con la scarpetta di cristallo, e per la seconda volta nello stesso giorno mi ritrovo circondata da una distesa d’acqua che non posso bere, destinata a morire disidratata da qualche parte nella Pianura Padana.

© Riproduzione riservata