Nei mercati europei ci si incontra, si va a passeggiare anche solo per guardare quello che i venditori espongono certamente come una merce, ma anche come qualcosa da esibire per intrattenere i passanti. I mercati europei sono un angolo di festività anche nei giorni feriali, una pausa dal flusso altrimenti continuo della giornata lavorativa
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Sono anni che ci si chiede se esista un cibo europeo, un piatto o un alimento che rappresenti questa parte di mondo che (sovranisti a parte) sempre maggiormente vorrebbe essere più unita. Certo, ci sarebbe bisogno di qualcosa che anche da un punto di vista gastronomico ci facesse sentire tutti parte di questa comunità. Ma forse, più che un alimento specifico, il nostro essere europei a tavola andrebbe ricercato nelle modalità in cui ci accostiamo a quello che mangiamo. Non ci unifica un cibo, quindi, ma una cultura del cibo.
Il mercato alimentare urbano, così come lo conosciamo da secoli e per come sta cambiando da un po’ di anni a questa parte, è l’elemento della sfera alimentare che forse accomuna più di tutti italiani e svedesi, ciprioti e finlandesi. Questo perché se è vero che l’Europa ha due anime, la mediterranea e la nordica, è anche vero che in entrambe le tradizioni il mercato del cibo ha sempre rappresentato valori che andavano ben oltre il comprare qualcosa da mangiare, pur con qualche differenza; e che, soprattutto negli ultimi anni, queste differenze si stanno via via assottigliando.
La storia antica
Nei mercati europei ci si incontra, si va a passeggiare anche solo per guardare quello che i venditori espongono certamente come una merce, ma anche come qualcosa da esibire per intrattenere i passanti. I mercati europei sono un angolo di festività anche nei giorni feriali, una pausa dal flusso altrimenti continuo della giornata lavorativa. Questo succede molto di più che, per esempio, nei mercati asiatici, dove la compravendita è preponderante sulle altre funzioni.
E non succede per nulla nell’America del nord, dove questa connessione tra mercato e festività, quando c’è, è nuova e importata dall’Europa. Alcuni paesi arabi, africani e dell’America latina hanno invece una tradizione simile alla nostra, ma senza la commistione di culture diverse, locali o lontane, magari extra-continentali e importate dalle migrazioni, che troviamo in Europa.
Attorno al Mediterraneo, all’inizio sono gli stessi produttori a vendere, ma sappiamo che dal V secolo a.C. il Pireo diventa il maggior porto di tutto il bacino e che il cibo è il grande protagonista di questi commerci.
Questo significa che non si consumano più solo prodotti locali. Cereali, vino, olive, fichi, miele, carne, legumi e verdure di ogni genere arrivano da Egitto, Magna Grecia e Asia Minore per invadere Atene e le altre città greche. Finiscono nei mercati, dove adesso a vendere ci sono i commercianti. Nascono le figure dei supervisori e degli ufficiali, che controllano la qualità dei prodotti. Nell’antica Roma, il mercato del cibo serviva invece a dimostrare la potenza dell’Impero, esibendo alimenti e spezie che provenivano anche dai domini più lontani.
Nell’Europa del nord è il medioevo il momento-chiave. È intorno al IX secolo infatti che i mercati settimanali del cibo prendono piede in Germania, Olanda, Svezia e altri paesi grazie a un fortissimo incremento dei commerci e a un periodo di benessere economico. Sono le istituzioni locali, le chiese, i monasteri e i ricchi mercanti a organizzarli. Presa la licenza, nuovi affaristi si lanciano nell’avventura alimentare. I mercati sono ancora scoperti, situati nelle piazze o nelle strade secondarie, ma a volte anche appena fuori da chiese e monasteri.
I mercati coperti
È solo nel tardo medioevo che si cominciano a costruire quelli coperti, a volte anche dedicati a un solo alimento (pane, pesce, carne). La novità non è solo architettonica: il mercato coperto sposta la socialità dalla strada all’edificio e permette molte più insegne, scritte, in alcuni casi delle vere e proprie scenografie studiate per attirare il cliente. Il Palazzo della Ragione a Padova è del primo 1200. Nel 1400 viene costruito il mercato della carne di Ghent, in Belgio, uno dei più grandi d’Europa, un edificio che sarà preso a modello da molte altre città. Le differenze tra i mercati nordici e quelli mediterranei si assottigliano sempre più.
Ma è nell’800 che arriva un’altra generazione di mercati del cibo, costruiti usando molto ferro e vetro, che accomuna praticamente tutti i paesi europei. È un boom: in Francia dal 1800 al 1851 l’ufficio per gli edifici civili riceve 277 richieste di costruzione di nuovi mercati del cibo in 122 città. Il 40 per cento delle città francesi avrà così almeno un mercato del cibo coperto. Negli anni Trenta dell’Ottocento arrivano in Spagna La Encarnacion a Siviglia, San Ildefonso a Madrid e ben due mercati, anche vicini, a Barcellona: Santa Caterina e La Boqueria, ancora oggi un must per chi visita la città. A Bruxelles aprono in quegli anni il mercato di Rue de la Caille, la Poissonnerie e il grande mercato di Sainte Madeleine. L’Europa dei mercati è ufficialmente unita.
Da Rotterdam a Milano
E oggi? Oggi a Rotterdam c’è un mercato che per stessa ammissione di chi lo promuove somiglia a quelli di Stoccolma e Barcellona. Essendo più nuovo, ha investito molto di più nella ricerca dello stupore di chi lo visita, esattamente come faceva la chiesa cattolica con le cattedrali. Un arco alto 40 metri accoglie il pubblico; una volta dentro, si può guardare la produzione, comprare, prendere un aperitivo in terrazza, mangiare, intrattenersi nel dopocena.
I mercati del cibo europei non cercano un consumatore che entri, compri e vada via; ma una persona che viva quel luogo per accrescere le sue conoscenze, aprirsi a mondi lontani (a volte anche ad altri Continenti) e soddisfare nuove curiosità. Curiosità che non si accendono in un mall nord-americano, aperture ad altri continenti che non si trovano in un mercato asiatico o sud-americano.
Ostermalms Saluhall a Stoccolma è un edificio dell’Ottocento che ha rispettato magnificamente l’architettura originale, non ha volte di 40 metri ma dentro si possono trovare e fare esattamente le stesse cose cha a Rotterdam. Lo stesso succede al Mercato Centrale di Milano, dove puoi comprare in vari negozi o mangiare in uno dei ristoranti (dal siciliano al thailandese, dal greco al sardo) ma sederti dove vuoi, perché i tavoli sono comuni.
E così se vai al Torvehallerne di Copenhagen puoi sentirti a Madrid, non per il cibo che ci trovi ma per l’approccio, per la cultura che propone, per la curiosità che ti stuzzica e per la varietà di cibo che offre. Oltre alla molteplicità di occasioni, in tutti questi luoghi quella che viene proposta al visitatore è una visione del cibo come tesoro del mondo: a Copenhagen spezie mediorientali, formaggi italiani e piatti greci sono accanto a prodotti locali, e lo stesso succede all’Arminius di Berlino, luogo in cui questa varietà diventa la stessa ragion d’essere del mercato: la pizza accanto al ristorante peruviano, il gulasch di fronte al fusion asiatico.
Il cibo come fonte di curiosità e conoscenza, in un edificio costruito nel 1891 che somiglia, non a caso, a una cattedrale. Lo stupore è servito.
A Tolone
Se ne volete la prova concreta, andate a visitare il mercato del cibo di Tolone, che si estende per una gran parte del centro cittadino. Una festa quotidiana del cibo che attraverso Cours Lafayette arriva fino al porto, e che fu anche cantata da Gilbert Bécaud. È un mercato che tra le molte cose vende, anzi esibisce, per esempio i pani speziati della tradizione araba, la baguette e le gallette bretoni, facendovi viaggiare dalla Mezzaluna fertile al mare del Nord nel giro di cinque o sei bancarelle.
Quel posto non è solo un mercato, è un quartiere della città che trova la sua identità nel cibo. I bambini ci giocano, gli abitanti ci si danno appuntamento, i turisti lo visitano incantati. E in quel viaggio tra Medio Oriente e Mare del Nord fatto in realtà in venti metri, nel preferire al commercio l’esperienza, al comprare e andar via il piacere di uno spettacolo, c’è forse il seme della vera cultura del cibo europea.
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