«L’uomo e il politico Mussolini per me sono inscindibili. Vedo il fascismo come la politicizzazione della mascolinità tossica. Mussolini è il prodotto dei rapporti che ha vissuto a livello familiare, con i suoi amici e la sua comunità, prima che con la sua nazione. Erano tutti questi livelli umani che volevo esplorare». È illuminante parlare con Joe Wright, perché i percorsi lavorativi sono un mistero, e a posteriori diresti che è nato per raccontare questa storia.

Ma il cinema è sempre un lavoro di squadra. «Vengo da una famiglia antifascista, sono antifascista, e questo ruolo all’inizio mi ha dato molti pensieri», dice Luca Marinelli. «Alla fine ho capito che era un modo per assumermi la mia piccolissima responsabilità storica, fianco a fianco con un artista gigante che mi ha fatto sentire protetto, senza il quale non avrei fatto un passo. Per fare questo lavoro onestamente hai il dovere di approcciarti al personaggio sospendendo il giudizio. Sospendere il giudizio per i sette mesi di lavorazione, per me antifascista, è una delle cose più dolorose che mai abbia vissuto».

Contava, dice, un progetto capace di farci capire «l’enorme ignoranza che ci portiamo dietro, io per primo, e i conti che non abbiamo fatto con il passato, perché vediamo oggi che il passato si ripresenta». Mai come oggi perciò, sostiene, «sapere, capire, lo studio, hanno una enorme importanza politica, per non sottovalutare quello che abbiamo sotto gli occhi». Marinelli ha “fatto i compiti” in questo senso, ma ha fatto anche una full immersion nei filmati dell’Istituto Luce. «E per quanto fossero controllati e univoci, anche da quelli ho potuto carpire aspetti di grande violenza». Una delle sue fonti è stata la testimonianza dettagliata di Ranuccio Bianchi Bandinelli, costretto negli anni Trenta, lui archeologo antifascista, a fare da guida turistica al Duce, che l’attore definisce «un criminale a tutto tondo».

Sorprende che M. qui alla Mostra non sia stato proiettato nella Sala Grande del palazzo del cinema, onore concesso invece alla serie di Alfonso Cuarón: in futuro sarà proprio l’opera di Joe Wright una delle ragioni per cui verrà ricordata questa edizione. Per la proiezione, con il produttore Lorenzo Mieli di The Apartment (Freemantle), è arrivato anche Antonio Scurati, per una benedizione da autore per niente rituale. «Ho sempre pensato che il cinema – dice – fosse il naturale prolungamento del romanzo. Vero è che il mio è un romanzo di genere particolare, un romanzo documentario, ma la mia è sempre una ricerca d’arte pop. Il fascismo andava raccontato con un linguaggio nuovo  – ma sempre antifascista – che arrivasse a tutti senza eccezione. I rischi creativi sono stati felicemente bypassati. Nella sua diversità dal libro, il film serve a mobilitare le coscienze, a far capire quale seduzione potente risiedesse nel fascismo un secolo fa e a far provare ripulsa».

Aggiunge lo scrittore che lo spettro del fascismo si aggira ancora per l’Europa: «Ciò che l’arte può fare è evocare lo spettro e fugarlo». Fanno coro gli sceneggiatori. Stefano Bises: «Dovunque volgiamo lo sguardo nel mondo vediamo in diverse forme il riemergere del brand di maggiore e più duraturo successo mai creato dall’Italia».

E ci spiega Joe Wright la scelta di far parlare M. in macchina, rivolgendosi allo spettatore: «È la soluzione che abbiamo trovato per fargli esprimere i suoi pensieri. È un uomo che raramente ha detto quello che pensava, perché ha sempre scelto di ingannare tutti, dalla sua famiglia all’intera nazione fino a se stesso. Volevamo far capire al pubblico cosa pensava un uomo che ha sempre controllato la propria narrazione. Era la condizione per vincere. Verso la fine del film perde anche questa capacità di controllo».

Riferimenti stilistici dichiarati, il futurismo con la sua energia modernista e Dziga Vertov, L’Uomo con la Macchina da Presa. Per la cronaca Wright gira tutto in funzione del montaggio, in simbiosi con Valerio Bonelli: quando vedrete il ritmo mozzafiato della serie, capirete perché.

© Riproduzione riservata