M. Il figlio del secolo, in anteprima mondiale a Venezia e su Sky nel 2025, è la più grande serie originale mai realizzata in Italia e non solo in Italia, un kolossal di creatività e pregnanza politica. La iperbolica metamorfosi dell’attore suggerisce molti aggettivi, tutti inadeguati. È spudoratamente, oltraggiosamente istrionico. Il regista Joe Wright: «Mi interessa parlare a chi non ha pensato granché al fascismo»
Make Italy Great Again, dice il Benito Mussolini di Joe Wright alla vigilia della sua nomina a Primo Ministro del Regno. Troppo? No. Perché l’urgenza di attualità e la forza di un linguaggio non solo moderno, travolgente, spettacolare, per far parlare la Storia al nostro presente, fa di M. Il figlio del secolo la più grande serie originale mai realizzata in Italia e non solo in Italia, un kolossal di creatività e pregnanza politica. In anteprima mondiale a Venezia 81 in versione integrale, otto capitoli, la vedremo su Sky e in streaming su NOW nel 2025, purtroppo senza passaggio in sala.
Era una sfida impossibile far diventare cinema palpitante il romanzo documentario di Antonio Scurati (così lo scrittore lo definisce), Premio Strega nel 2019. La doppia anima, teatrale e pop, di un regista di adattamenti letterari non sempre e non tutti condivisibili (Orgoglio e Pregiudizio, Anna Karenina, Espiazione, Cyrano) ha estratto l’essenza della scalata del fascismo al potere e ha condensato un archetipo: l’archetipo di tutti i populismi moderni. C’è una congiura di fattori che appartiene sinistramente ai nostri giorni come agli anni 1919-1925 narrati da Scurati nel primo volume della sua mastodontica impresa. Le scelte stilistiche di Joe Wright liberano la ricostruzione dalla contingenza, senza forzare gli eventi, e chiamano gli spettatori di oggi a decidere in proprio se tutto deve ripetersi, col loro consenso e la loro adesione.
L’idea di rompere la quarta parete, l’effetto-shock di un Mussolini-Luca Marinelli che si rivolge sempre e direttamente allo spettatore, è una breccia sul codice di comunicazione dei populismi di ogni stagione, la doppiezza di un opportunismo che annusa il vento e orienta la bussola, senza altro principio che il tradimento costante. «Non credo che la serie necessariamente convincerà mai un fascista ad abbandonare il fascismo – dice il regista – Mi interessa parlare alle persone che si trovano nel mezzo, agli indecisi o a coloro che non ci hanno pensato un granché, e presentargli la storia sperando di incoraggiarli a pensarci di più e a non lasciarsi sedurre dalla politica della paura».
Un’interpretazione monumentale
Per Joe Wright, Luca Marinelli è «un genio» tout court. La sua iperbolica metamorfosi suggerisce molti aggettivi, tutti inadeguati. È spudoratamente, oltraggiosamente istrionico, Ettore Petrolini che incontra Al Capone di Bob De Niro, ma è il nostro vicino di casa: un fake per consapevole scelta, che è poi la sola filologia possibile senza scadere nella caricatura. Marinelli stabilisce un nuovo primato olimpionico di suggestione. Non c’è prostetica capace di trasformare il taglio degli occhi o la piega delle labbra in quelli del futuro Duce: lui ci riesce. Parla con l’autorevolezza autoreferenziale di un leader di strada, sanguigno ma calcolatore, «zingaro della politica» per autodefinizione, navigatore a vista, traditore di tutti (sempre parole sue), «orgogliosamente alieno da qualunque coerenza politica e ideale». Ha la carnalità narcisista di un adultero inveterato, scopatore compulsivo e stupratore occasionale, se è vero il vanto di sua moglie Rachele: «Mi ama tanto che la prima volta mi ha preso con la forza». Non c’è messa in scena che tenga se non funzionano i comprimari: cito per tutti il fedelissimo e onnipresente Cesare Rossi, affidato a un perfetto Francesco Russo (che ho il privilegio di aver conosciuto esordiente), l’iconico Gabriele D’Annunzio di Paolo Pierobon, l’amante-musa-promoter di M., Margherita Sarfatti, interpretata da Barbara Chichiarelli.
È capitale l’apprendistato politico di M. come direttore de Il popolo d’Italia, con la mission di attizzare la rabbia dilagante degli incazzati e di puntare su «uomini forti e idee semplici». Col primo tradimento politico verso gli ex compagni socialisti, ovvero la scelta interventista, la violenza è già metodo. La resa coreografata e stilizzata della devastazione de L’Avanti! è molto più efficace di qualsiasi ricostruzione realistica. I veri-falsi filmati d’epoca sull’impresa dannunziana di Fiume sono magistrali. I Fasci di Combattimento sono un branco di picchiatori e delinquenti per vocazione, come forza elettorale da accreditare sono fantasmagorica cartapesta: chi voterebbe una lista che ha «per unica dottrina il Fatto»? Diventano preziosi quando latifondisti e industriali hanno bisogno di milizie private contro gli scioperi. Teppisti sanguinari a libro paga.
Wright fa grande spettacolo e insieme lancia segnali: «Convertire la paura in odio» è il mantra che sta demolendo le democrazie del Terzo Millennio. Proponendosi a Giolitti come garanti dell’ordine costituito, le squadracce “impresentabili” in camicia nera (divisa ideata dal “pazzo” Italo Balbo, come i beveroni di olio di ricino) approdano incredibilmente in Parlamento. il Presidente del Consiglio crede di averle addomesticate. Le ha solo legalizzate. La farsa sgangherata della Marcia su Roma – un bluff concepito al solo scopo di strappare qualche poltrona a Facto, subentrato a Giolitti – non naufraga nel ridicolo solo per l’inerzia dei poteri. L’idea di alternare in montaggio la partenza da Napoli con la Turandot al teatro San Carlo è degna di Francis Ford Coppola. La ritmica martellante che scandisce la narrazione è firmata da Tom Rowlands dei Chemical Brothers, che alterna atmosfere da rave party alle svenevolezze di Elvis Presley melodico.
La scansione
La serie è divisa di due parti, ognuna scandita da quattro capitoli. La prima parte si chiude con la nomina di M. a Primo Ministro. Fa paura ricordare che la stampa straniera plaudiva alla «rivoluzione dei giovani» mentre il neo-premier dichiarava: «La democrazia sopravvive per mia gentile concessione. Per ora».
Quando la nuova legge elettorale liberticida garantirà il 65% dei seggi con il 25% dei voti, sarà ancora meno diplomatico: «La democrazia è bellissima. Permette un sacco di libertà, anche quella di distruggerla. A cose fatte, la aboliremo».
Gli ultimi quattro capitoli non hanno la potenza eruttiva dei primi. In metafora è la nemesi del populismo di destra: una volta che si è insediato a Palazzo arranca, sbiadisce, ha il fiato corto. Eppure le prove tecniche di dominazione, quando l’arbitrio si è stabilmente sostituito alla legge – per citare Giacomo Matteotti – sono dense di omicidi e minacce: Matteotti, Don Minzoni, Mussolini volentieri aggiungerebbe Don Sturzo alla lista. Stefano Bises e Davide Serino firmano una sceneggiatura che se fosse la norma salverebbe il nostro cinema dal precipizio.
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