- Nel 2017 lo spot in cui una ragazza nera usando il bagnoschiuma Dove si trasformava in una donna bianca fu ritirato dopo poche ore, a seguito dei messaggi di migliaia di utenti che ne denunciavano il razzismo
- La modella protagonista della pubblicità lo difese, dicendo che voleva rappresentare un immaginario multirazziale
- Ma la reazione indignata suscitata dallo spot ha radici profonde: l’immagine che proponeva ha una storia lunghissima e ampia diffusione
Qualcuno se la ricorderà, quella pubblicità della Dove. Quella del novembre 2017, che mostrava una ragazza nera la quale – grazie all’azione del bagnoschiuma Dove – si trasformava come d’incanto in una donna bianca. E che poche ore dopo il lancio venne ritirata, con tanto di scuse dell’azienda per le “offese arrecate”, a seguito dei messaggi sdegnati di migliaia di utenti che ne lamentavano il razzismo, neanche tanto implicito.
E dire che – a leggere le scuse della multinazionale dei saponi – quella avrebbe dovuto essere una campagna “multirazziale”.
Le polemiche sullo spot
Così l’aveva immaginata anche Lola Ogunyemi, la modella nera che aveva prestato il viso e il corpo che graficamente erano stati “sbiancati”. Intervistata dal quotidiano britannico The Guardian il giorno dopo il ritiro della pubblicità, Ogunyemi disse infatti di essere stata «entusiasta» di rappresentare le donne nere in una campagna pubblicitaria di un marchio tanto famoso. «Sono nigeriana, nata a Londra e cresciuta ad Atlanta – dichiarò – e crescendo sono sempre stata consapevole dell’opinione della società secondo cui le persone con la pelle scura, specialmente le donne, sarebbero più belle se avessero la pelle più chiara. Pensavo che con quella pubblicità avrei potuto ricordare al mondo che noi siamo qui, che siamo belle e che, ancora più importante, siamo apprezzate».
Non si poteva immaginare, disse, che la reazione sarebbe stata opposta alle intenzioni: che la sequenza delle immagini avrebbe suggerito che per essere bella una donna nera avrebbe dovuto trasfigurarsi sbiancandosi. «Ma certo riconosco – aggiunse – che i pubblicitari dovrebbero guardare oltre la superficie e considerare l’impatto che le loro immagini possono avere, soprattutto quando si tratta di gruppi di donne marginalizzati».
Chi aveva ragione? I creativi di Dove, che dando spazio a una modella come Lola Ogunyemi, dicevano di voler evidenziare la diversità e la ricchezza umana? O gli utenti e le utenti di mezzo mondo, che nel migliore dei casi avevano visto in quella pubblicità una coazione a ripetere da parte di Dove – già in passato accusata di campagne razziste – che si era messa in una situazione imbarazzante, producendo e diffondendo (suo malgrado?) un messaggio suprematista, del tutto inaccettabile nel ventunesimo secolo?
Certo è che, se la reazione era stata tanto forte, quel messaggio doveva aver fatto scattare qualcosa nell’utenza: qualcosa che era latente e che quella trasfigurazione stava riportando in luce. Qualcosa che si era già visto e subìto (ma dove, e quando?). Qualcosa che irritava profondamente a prescindere dalle intenzioni di chi l’aveva generato. Anzi, che irritava profondamente proprio perché le intenzioni non potevano essere comunque buone: perché quell’immagine e quello “sbiancamento” di positivo non potevano avere proprio nulla, checché provasse a la Dove.
Storia di un meme
In effetti a molte persone quell’immagine doveva aver fatto l’effetto di un dejà vu. O meglio, per usare un termine oggi molto familiare, di un meme: di qualcosa che – riprendendo l’etimologia della parola (dal greco mímēma, “imitazione”) – imita qualcos’altro. Di un’unità culturale in forma di idea che si diffonde per imitazione da un contesto a un altro: capace di autopropagarsi, rispondendo a un processo di cui spesso non ci si rende conto.
Non è un caso, dopotutto, che il neologismo meme ci arrivi dal biologo Richard Dawkins, che negli anni settanta ipotizzò che le informazioni culturali si diffondono analogamente a quanto fanno i geni: copiandosi e mutando casualmente, ma lasciando anche un’impronta così da essere tracciabili. Permettendoci quindi di essere analizzate: di farci risalire alla loro origine, e di farci intuire il modo in cui si trasformano e si diffondono.
A proposito di impronte. Anche nella ricerca umanistica, come nelle scienze, ci possono essere scoperte casuali: incontri fortuiti dall’esito inatteso e dalle conseguenze sorprendenti. Ecco: la ricerca da cui trae spunto la storia di questo meme è frutto di un incontro fortuito.
Tutto infatti nacque un po’ per caso una ventina di anni fa. Quando, nel tentativo di ricostruire la storia del lessotipo “negro” in italiano e nei dialetti, scorrendo il Vocabolario dei dialetti ladini e ladino veneti dell’Agordino di Giovanni Battista Rossi (1992), mi imbattei nel proverbio negro de nadura, no conta sfregadura, che, stando a quanto riportato, significava «tentare l’impossibile». La voce era scarna. E infatti lì per lì non vi prestai molta attenzione. Poco tempo dopo, però, ritrovai un’espressione simile anche in un repertorio ottocentesco di modi di dire lombardi: quand s’ê nigher de natüra, no val gnè saù, gnè laadüra (“quando si è neri di natura, non serve né il sapone, né lavarsi”), ovvero – a leggere la definizione fornita dal compilatore – «fare qualcosa di inutile».
Un significato, questo, che pur differendo da quello del proverbio agordinese richiamava tuttavia un’immagine non troppo diversa: quando si è “neri” di natura, né sfregare né lavarsi con il sapone possono servire a mutare il colore della pelle. Si tenterebbe di fare qualcosa di impossibile, sarebbe solo un tentativo inutile.
Espressione ricorrente
«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova»: non so se l’abbia detto veramente Agatha Christie. Di certo io non volevo fermarmi alle coincidenze. Ho cercato quindi altri indizi: altri esempi di espressioni simili in altri repertori linguistici. Cominciando dai maggiori dizionari storici dell’italiano, e considerando non solo la voce “negro”, ma anche le voci relative ai suoi quasi-sinonimi “etiope” e “moro”.
Proprio alle voci “etiope” e “moro”, infatti, il Grande Dizionario della Lingua Italiana registrava le espressioni «imbianchire un etiope» per «fare una cosa inutile», «lavare un etiope» per «tentare l’impossibile», e «lavare la testa al moro» per «dedicarsi a un lavoro impossibile, non concludere nulla», ricavate da fonti letterarie eterogenee per genere ed epoca: il Libro della bella donna (1554) del poeta-trattatista Federico Luigini da Udine («Ciò era un pestar d’acqua in un mortaio, un parlare ai sordi ed un voler imbianchire un etiope e lavare un mattone»), i Ritratti poetici storici e critici (1785) del filosofo Appio Anneo de Faba Cromaziano alias Appiano Bonafede, e una lettera che Ugo Foscolo scrisse il 3 dicembre 1814 all’amata Quirina Mocenni Magiotti («Alla tutela di Stefano ho finalmente rinunziato… M’adirava meco, e mi sentiva umiliato vedendomi nella matta impresa di lavar la testa al moro»).
Gli esempi diventavano più cospicui se si faceva una ricerca – anche rapida, non sistematica – in Google Books, inserendo nel motore di ricerca le espressioni lavare un etiope, lavare la testa al moro, imbiancare un moro, imbiancare un etiope… Certo, in tutto si trattava di una manciata di occorrenze. Ma erano esempi non privi di indizi, appunto. Perché era evidente l’eterogeneità di testi e argomenti, di autori e destinatari.
Si andava così dai commenti alle sacre scritture del gesuita novarese Carlo Gregorio Rosignoli (1631-1701) al dialogo sulla lingua dell’erudito senese Uberto Benvoglienti (1668-1733), dalle prediche del gesuita napoletano Francesco Pepe (1684-1749) alla novella Serpicina del politico radicale e scrittore livornese Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), da un trattatello politico attribuito al giurista e filosofo Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) a uno scritto polemico comparso sulla rivista della Compagnia di Gesù La civiltà cattolica (1868). E poi c’erano le traduzioni dall’inglese, dal francese, dal latino… Una trasversalità che faceva intuire una certa diffusione e circolazione del proverbio del “moro” o dell’“etiope”, nelle sue diverse forme: lavato o sbiancato che fosse il suo malcapitato protagonista.
Immaginario internazionale
La casistica, d’altronde, non si fermava all’italiano e alle sue varianti regionali. Anzi, andando a sfogliare alcuni dizionari storici di altre lingue europee le analogie si moltiplicavano. Per esempio, alle voci “Ethiop” e “Blackamoor”, l’Oxford English Dictionary riportava i modi di dire «to wash an (or the) Ethiop (white)», «to wash an Ethiop’s face» e «to wash a Blackamoor white» per indicare l’inutilità di un gesto («to attempt the impossible»), mentre il Trésor de la langue française annoverava à laver la tête d’un Maure on perd son temps et sa lessive – spiegato come «inutile cercare di spiegare a qualcuno qualcosa che è fuori dalla sua portata» – volouir blanchir un nègre, «voler tentare l’impossibile», e à vouloir laver / blanchir la tête d’un âne / d’un Maure on (n’y) perd (que) sa lessive «è una perdita di tempo cercare di istruire un imbecille, o cercare di far ragionare un ostinato». E se il Wörterbuch dei fratelli Grimm registrava Einen Mohren kann man nicht weiß waschen («non si può lavare un Moro fino a farlo diventare bianco»), lo spagnolo annoverava jurado ha el baño, de negro no hacer blanco «il bagno ha giurato di non voler rendere bianco il nero», ovvero «non esiste rimedio per cancellare le macchie inflitte all’onore» o anche «non si può cambiare la natura», para que va la negra al baño, si blanca non puede ser? (o anche para que va al baño la negra, si negra se queda? «perché una nera va in bagno, se non può diventare bianca?», ovvero «[provare a] fare qualcosa di inutile»).
Benché provenienti da lingue, epoche, generi e contesti culturali diversi, e benché formalmente distinti, tutti i proverbi apparivano, almeno a una prima occhiata, assimilabili alle diverse realizzazioni dello stesso concetto.
Possedevano infatti significati che presentavano similitudini e che erano riconducibili prevalentemente alle stesse immagini, allo stesso topos retorico-letterario: l’atto di schiarire o sbiancare, di solito tramite lavaggio (con o senza sapone), la pelle dell’«etiope» o, più genericamente, di un individuo dalla pelle scura, di un «nero» (maure, Mohr, ne*ro, eccetera).
Ma da dove arrivava questo topos? Quando e si era trasmesso e diffuso in lingue diverse, attraverso generi letterari diversi, a mo’ di meme ante litteram? Quale e quanta fortuna aveva avuto, in quali periodi? E per quali ragioni? Come sarebbe arrivato fino a quella pubblicità della Dove?
Questo articolo è un estratto dal libro Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista (Utet 2022, pp. 248) di Federico Faloppa.
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