- Il più bello fra i film su Gesù è rimasto sulla carta di una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer, e può essere soltanto immaginato.
- Sullo sfondo dell’occupazione romana, paragonata a quella hitleriana, Dreyer intreccia con cura e sapienza la narrazione dei quattro vangeli, e la ravviva evocando diverse parabole.
- Il regista sceglie di concludere il film con la crocifissione: «Gesù muore, ma con la morte portò a termine l’opera che aveva iniziato in vita».
Sono tanti i film su Gesù, spesso suggestivi, alcuni memorabili, ma il più bello è rimasto sulla carta di una sceneggiatura coinvolgente e può essere soltanto immaginato.
A pensarlo e a documentarsi sin dall’inizio degli anni Trenta, poi a scriverlo fu colui che – a ragione – è da molti considerato il regista più grande della storia del cinema, il danese Carl Theodor Dreyer, scomparso settantanovenne nel 1968, quando il progetto sembrava ormai alla vigilia della realizzazione.
Dunque, davvero “il film di una vita”, come recita il sottotitolo di Gesù (Iperborea), che pubblica per la prima volta la versione più ampia della sceneggiatura, tradotta in italiano a metà degli anni Sessanta.
La storia del testo, curato da Marco Vanelli e con una postfazione di Goffredo Fofi, è tormentata e resta il desiderio di saperne di più. La sceneggiatura fu data a Vanelli dal gesuita Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico della Civiltà Cattolica.
Questi a sua volta aveva avuto il testo dal confratello Carlo Maria Martini al quale «era stato consegnato dalla Rai per un parere di coerenza biblica e di opportunità ecclesiale», parere di cui però non vi è traccia.
Ma come si arrivò a questo punto? L’approdo in Italia, suggerito da amici, dipese dal venir meno della fiducia in un impresario statunitense, Charles Blevins Davis, che Dreyer conobbe nel 1949.
Il rapporto però si trascinò per sedici anni perché Davis trattava il regista «come un postulante importuno, rinnovando ogni tanto vaghe promesse». Si tradusse allora dall’inglese la sceneggiatura completa – il cui dattiloscritto con interventi autografi di Dreyer è sul sito dedicato al regista (carlthdreyer) – ma alla Rai se ne parlò soltanto nel 1967, troppo tardi.
Già nel 1969 comunque, un anno dopo la morte del regista, Einaudi pubblicò un testo più breve di quello edito dall’attuale curatore, che ha comunque confrontato le due versioni.
Dialogo aspro
Luterano non praticante, Dreyer fu sempre affascinato dalla figura di Gesù: «Credeva in un Dio cosmico, presente nelle cose e in noi, un Dio da raggiungere faticosamente, duramente. Una entità con la quale stabilire un dialogo che si sa a priori contorto, aspro, contraddittorio», raccontò poco dopo la morte del regista il figlio Erik.
Questi sottolineò il «bisogno di religiosità e di spiritualità» del padre che emergeva «da tanti frammenti della sua vita, dalla sua silenziosa lezione morale, dal senso profondo di giustizia da cui era animato, dai rapporti severi che aveva con le persone, da come amava serenamente – da saggio – la vita, da come voleva non andasse sciupata.
Dalla concezione quasi monastica che aveva del suo lavoro, dal disprezzo per il denaro, dall’odio per i filistei». Una descrizione che spiega implicitamente le difficoltà trovate nel realizzare i suoi capolavori.
Dreyer affrontò il lavoro nel modo più difficile, non scegliendo uno dei quattro vangeli canonici (come Pasolini, che decise di rappresentare il racconto secondo Matteo), ma combinandoli insieme – così avrebbe poi fatto Zeffirelli – in un tessuto attendibile che il regista danese ricostruisce con rigore storico e intuizioni artistiche sorprendenti.
Come l’evangelista Marco, autore del vangelo più breve, e come Giovanni, il testo che più riflette sulla figura di Cristo, la sceneggiatura si apre con il suo battesimo nel Giordano, ignorandone la nascita e i trent’anni vissuti a Nazareth.
Un solo cenno è riservato a uno dei vangeli dell’infanzia. Durante l’entrata trionfale a Gerusalemme – dove Gesù viene accolto come il messia, l’unto di Dio destinato a regnare, pochi giorni prima di venire arrestato e messo a morte – «tre vecchi stanno ai bordi della strada. Potrebbero essere i “tre saggi d’Oriente”. Quando Gesù li avvicina, si gettano in ginocchio, chinando la testa».
Sono ovviamente i magi, che secondo Matteo, si erano prostrati e avevano adorato il bambino nato a Betlemme.
È una presenza suggestiva, che ricorda quella immaginata di uno dei magi, Baldassare, che figura tra i protagonisti nel famosissimo «racconto del Cristo» portato al cinema da Wyler sulla base del Ben-Hur di Wallace.
Un altro cenno è riservato alla popolarissima leggenda apocrifa della Veronica, la donna che durante la salita di Gesù al Golgota, impietosita, chiede a un soldato: «Guarda com’è sudato. Posso asciugargli il viso?». Il regista commenta: «Poiché la donna ha un aspetto piacevole e benevolo, il soldato acconsente». Nulla di più.
Un lavoro lungo
Lo scenario è infatti quello segnato dall’occupazione romana, paragonata a quella hitleriana dei paesi invasi prima e durante la seconda guerra mondiale, e dal movimento di resistenza degli zeloti che cercano di utilizzare ai loro fini il predicatore di Nazareth e il consenso che riscuote tra il popolo.
Su questo sfondo Dreyer intreccia con cura e sapienza la narrazione dei quattro vangeli, e la ravviva evocando diverse parabole. E ci si può solo immaginare come il regista – sicuramente in bianco e nero, come tutti i suoi film dove l’alternanza tra la luce e le tenebre è resa da una fotografia abbagliante – avrebbe rappresentato quanto descrive con asciutta emozione.
Come nella chiamata degli apostoli: «Pietro lo guarda sorpreso. Come poteva quest’uomo sapere il suo nome? Sta per chiederlo al fratello, ma Andrea scuote la testa a indicare che non può aiutarlo. In quel momento, Gesù si volta verso Pietro e tra i due nasce un legame che non si spezzerà mai».
O, ancora, in una scena dove «Pietro s’arrampica per la salita e vede Gesù nella pianura sottostante, inginocchiato e assorto in preghiera. Pietro è profondamente scosso alla vista di Gesù, e una forza interiore sembra trasformare il rozzo pescatore. Una luce interiore illumina l’uomo e riflette la nuova purezza che ha trovato. Avanza ancora brevemente e si distende sull’erba aspettando Gesù».
Nella sceneggiatura non vi sono tracce del lavoro preparatorio, ma questo deve essere stato lungo e accuratissimo, perché profonda è la conoscenza dei testi biblici e delle loro interpretazioni più probabili. Gesù era già in uno dei primi film di Dreyer, Pagine dal libro di Satana, del 1921, ed è alla fine del decennio, dopo La passione di Giovanna d’Arco, che il regista inizia a scrivere questa sceneggiatura, mai più abbandonata. Nella sua visione il maestro di Nazareth è un giudeo vicino ai farisei ma la sua predicazione si staglia unica nell’ebraismo del tempo, perché lo rinnova e lo allarga.
Soprattutto, lo apre alla considerazione delle donne – che ritornerà nel suo ultimo film, Gertrud – e all’amore dei nemici.
Le parabole s’intrecciano al racconto, spiegate meglio che in tanti commenti. Così la parabola della moneta perduta – mai raccontata in un film – che viene collocata dopo la chiamata di Levi e l’incontro di Gesù con altri esattori delle tasse.
Amico dei peccatori
Questa vicinanza ai peccatori stupisce i farisei, che Dreyer considera comunque con simpatia: «Lo scopo di questa parabola è di darci la sensazione di come una piccola moneta sia divenuta il centro di attenzione per il fatto di essere stata persa e ritrovata. Come la donna si rallegrò moltissimo del fatto di averla ritrovata, così Gesù si rallegra enormemente per ogni peccatore che torna a lui. E come la donna trovò la moneta nel buio e nello sporco, così Gesù cerca i peccatori nello sporco e nel buio di questo mondo».
Molti sono i miracoli, che il vangelo di Giovanni chiama «segni» e che Dreyer tiene a spiegare sempre come disturbi psichici. Ma nell’episodio della trasfigurazione parlano sorprendentemente sia Mosè – come nella statua di Michelangelo, il cui nome è annotato dal regista – che Elia.
«In verità, tu sei il solo Figlio di Dio, scelto per stabilire il regno di Dio in terra» dice il primo, «e forza ti sarà data per affrontare tutto quello che verrà» aggiunge Elia. E, come la trasfigurazione, viene raccontata senza tentare spiegazioni di tipo razionale la resurrezione di Lazzaro.
Consapevole di non poter rappresentare la resurrezione, al centro nel 1955 dello sconvolgente Ordet («La Parola»), Dreyer sceglie di concludere il film con la crocifissione: «Gesù muore, ma con la morte portò a termine l’opera che aveva iniziato in vita. Il suo corpo fu ucciso, ma il suo Spirito viveva. I suoi insegnamenti immortali portarono agli uomini di tutto il mondo la buona novella di amore e di carità preannunciata dagli antichi profeti ebrei».
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