Parquet chiari, ciotole di bambù, vasi di gres, palle di sterpi secchi. Nei nostri appartamenti tutto è stato desaturato fino all’anemia, persino il Natale. Ma i ricordi, quelli belli, non li puoi desaturare
La mamma di Kevin McCallister – o almeno Katherine O’Hara che la interpreta – aveva trentacinque anni in Mamma ho perso l’aereo. Aveva trentacinque anni e una scarrettata di figli, abbastanza da scordarsene uno a casa mentre partiva per le vacanze di famiglia a Parigi. Aveva trentacinque anni e quella casa che ci ricordiamo tutti, con le scale coperte di moquette rossa e il camino incorniciato dalle tende verdi e i mobili di mogano e ghirlande lussureggianti un po’ ovunque.
Di recente ho letto un articolo (cioè, ho visto un video su TikTok) in cui veniva analizzato il set di quel film che più di altri ha impregnato il nostro immaginario. Con il suo massimalismo potrebbe aver influenzato il gusto estetico di noi bambini degli Anni 90, e invece a un certo punto la mia generazione ha deciso che nei nostri appartamenti doveva essere tutto grigio, al massimo beige, ancora meglio se greige, che Treccani classifica come neologismo, ma che nonostante la sua giovane vita si è imposto con prepotenza nella sensibilità cromatica di tutti.
Parquet chiari, ciotole di bambù, vasi di gres, palle di sterpi secchi. Tutto è stato desaturato fino all’anemia, persino il Natale, persino la casa dei McCallister, che quest’anno è stata messa sul mercato per cinque milioni di dollari. Ovviamente gli interni hanno un aspetto molto diverso da quello che abbiamo impresso a fuoco nella memoria e ancora scalda i nostri cuori ogni Natale: sfogliando le foto dell’annuncio immobiliare (attualmente ancora attivo su Zillow), ci si sente come se un dissennatore fosse venuto a rubarci l’anima e qualsiasi possibilità di gioia futura. È tutto greige.
Bramare il cottage
Aveva trentaquattro Cameron Diaz e ne aveva trentuno Kate Winslet in L’amore non va in vacanza, commedia natalizia di Nancy Meyers in cui le due protagoniste, senza conoscersi, si scambiano casa durante le feste. Winslet è una giornalista e vive da sola in un cottage nella campagna del Surrey, fuori Londra. Diaz guadagna molti soldi confezionando i trailer dei film di Hollywood e infatti vive in una villa a Los Angeles.
Anche se il lusso della seconda supera di gran lunga il fascino pittoresco della prima, io, da brava abbonata a House & Garden, bramo il cottage. La villa californiana di Cameron Diaz infatti è indiscutibilmente greige, oltre a trovarsi in una città dove lo spirito del Natale non esiste perché a dicembre fanno venticinque gradi come nel resto dell’anno e le occasioni per farsi delle cioccolate con la panna scarseggiano. Dove sono il calore domestico, il tartan, Jude Law che cerca di sembrare intelligente indossando gli occhiali da vista? Dove sono le coperte di lana e le teiere e le tazze scompagnate, modeste solo in apparenza?
Lettera a Babbo Natale
Ho trentadue anni io, che mentre faccio la schizzinosa con le case dei film, scrivo accanto a una zamioculcas addobbata con quattro palline in croce, perché vivo in un appartamento troppo piccolo per fare l’albero che vorrei. Non c’è greige dalle mie parti, ma siamo ancora molto lontani dalla trentacinquenne O’Hara nei fasti degli Anni 90, con i suoi tre piani di carte da parati e balaustre di legno massiccio. Siamo ugualmente lontani dalla mia coetanea Winslet che con un lavoro nella cultura vive in quella casa lì con le travi e la tinozza di lusso dove farsi il bagno, mica in un bugigattolo a Brixton con i topi che le mangiano la spazzatura.
Anche quest’anno, se credessi ancora a Babbo Natale, gli chiederei qualche metro quadrato in più. Ma in fondo mi dico che va bene così, il mio Natale ormai ha più a che fare con l’imperturbabilità delle filosofie orientali che con l’ostentazione capitalistica dell’occidente. Da quando vivo qui, compro solo una decorazione all’anno e come la goccia che scava la pietra, quando il momento sarà propizio e finalmente avrò un angolo di appartamento da adibire alla futile celebrazione squisitamente estetica di una festività che non conserva alcun valore spirituale se non quello legato al culto dell’insalata russa, avrò un albero riccamente addobbato, seppur di ricordi amari e anni di sacrificio (le palline che piacciono a me costano assai, quasi come i metri quadrati milanesi). E non sarà un albero qualsiasi, ma un albero capace di insegnare una lezione sulla perseveranza e la pazienza. Forse sarà brutto, ma di sicuro non greige.
Bei ricordi
Mentre ripensavo alla casa dei McCallister, sono andata a rivedere anche il loro albero di Natale e ho realizzato con una punta di soddisfazione che non era niente di che. Ma è proprio per questo che è perfetto, sembra l’albero di una famiglia vera: non è un abete di tre metri impeccabilmente decorato come in una vetrina della Rinascente, ma un coso sbilenco un po’ pelato con le palline rade e diverse tra loro, con ogni evidenza fatto a casaccio da una moltitudine di persone.
Mi ha ricordato i rituali di quando ero bambina, i bastoncini di zucchero a righe bianche e rosse che con mia zia fabbricavamo – in maniera del tutto controintuitiva – con la pasta di sale, gli accrocchi che ci inventavamo per riempire i buchi tra i rami sempre più sparuti con il passare del tempo, le compilation di Natale che facevano bestemmiare mio padre, del tutto immune allo spirito del Natale, la luce calda e soffusa che emanavano le lucine nel salotto dei miei nonni. È così che funzionano i ricordi, quelli belli non li puoi desaturare.
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