Dov’è finita Nicola Lauren McDermott? Sono poche le campionesse il cui nome dice qualcosa al grande pubblico. La fama della maggior parte delle atlete, anche le più forti o esposte mediaticamente, resta delimitata nei confini tracciati dagli addetti ai lavori. Se poi c’è chi cambia cognome mentre è ancora in attività, allora anche i tifosi perdono l’orientamento.

Sul secondo gradino del podio olimpico della finale di salto in alto è salita l’australiana Nicola Olyslagers. Che si trattasse di una coincidenza sembrava strano e altamente improbabile: tre anni fa, ai Giochi di Tokyo, un’altra australiana, un’altra Nicola ma Lauren McDermott appunto, aveva sfiorato il titolo.

Il dubbio legittimo era tra l’Australia come laboratorio di saltatrici formidabili oppure che si trattasse della medesima persona. E infatti Nicola medaglia d’argento a Parigi è la stessa atleta che aveva conquistato quello ai Giochi giapponesi: sempre lei che dal 2022, quando si è sposata con l’olandese Rhys Olyslagers, gareggia col cognome del marito.

Non è certo il primo caso. C’è pure chi ha cambiato e ricambiato più volte seguendo l’andamento di matrimoni e divorzi e mandando in tilt le classifiche all-time di specialità.

Tuttavia, al di là della difficoltà privata di ricostruire e gestire le proprie relazioni e la difficoltà pubblica di ripercorrere la storia delle varie discipline c’è di più. Il dovere di cambiare il cognome in seguito al matrimonio, trasferendo l’autorità sulla donna dalla famiglia del padre a quella del marito, ha radici lontane in tempi che sarebbe utile non avere più come riferimento.

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Ferme restando le diverse leggi nei differenti Stati e le varie sensibilità nella molteplicità di culture, è indubbio che lo sport inteso come strumento di emancipazione femminile mal si presta a consolidare questa abitudine là dove non fosse obbligatoria.

Partendo dal presupposto che anche il cognome della donna nubile è comunque quello del padre e non della madre, la questione spinosa sta nel riconoscimento individuale. In questo caso la parità di genere passa prima dall’affermazione di sé piuttosto che dal “casato” di provenienza.

Chiamare le donne per nome e cognome è una dimostrazione di rispetto e considerazione che purtroppo non possiamo ancora dare per acquisita. Ne abbiamo prove continue: anche il titolo dedicato pochi giorni fa alle spadiste azzurre dopo il titolo olimpico ne è un esempio: «l’amica di…», «la mamma di», la fidanzata di».

Sono passati 8 anni da quando il titolo «le cicciottelle di Rio» per le azzurre giunte quarte nel tiro con l’arco indignò l’Italia; eppure accade ancora che il ruolo o l’aspetto siano gli aggettivi che descrivono e lasciano definire la donna atleta.

In questo momento in cui cantiamo vittoria per i primi Giochi della parità, riportiamo l’attenzione sull’importanza del nome. Lasciamo per un attimo il grande tema di come risolvere la scelta del cognome da dare ai figli o da mantenere dopo il matrimonio e focalizziamo il problema, più ristretto ma di ampia portata simbolica, di riconoscere le donne, campionesse per i loro meriti.

E di farlo con i loro nomi, quelli con cui sono note, siano pure di mariti o ex. Anche un’icona della lotta al sessismo quale la tennista americana Billie Jean sposata King, nata Moffitt, ottenuto il divorzio non ha cambiato il nome con cui aveva raggiunto la fama per preservare l’integrità e la potenza della sua eredità sportiva e sociale. Ha voluto evitare equivoci che prestassero il fianco chi avrebbe potuto fingere confusione, pur di non riconoscerla.

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