Bilocale popolare della periferia milanese.
Cucina, inverno, appena dopocena.


Quattro figure: un quindicenne, sua madre, il secondo marito della madre, la loro bambina di due anni e mezzo. Sul tavolo ancora i piatti di plastica sporchi d’olio arancione e i fogli di Scottex usati come tovaglioli: per cena hanno mangiato la pasta ai peperoni, uno dei piatti preferiti del ragazzino. L’hanno mangiata che già discutevano, sua madre e il marito. Discutevano e anzi litigavano – i soldi che mancano, l’ex moglie di lui che non dà tregua, gelosie, ripicche – ma ora non litigano più. Ora urlano, sua madre in cucina, il marito in sala.

Ti ho detto di smetterla
Perché se non la smetto cosa fai?
Dai fammi vedere, fammi vedere cosa mi fai.

Urlano e ora all’improvviso smettono di urlare, perché il marito della madre del ragazzino, l’uomo di casa, scatta da una stanza all’altra, e le è addosso. Le urla mutano in grugniti e versi soffocati. Una manata, e la donna è subito terra, poi una raffica di calci a sfondarle la colonna vertebrale e il passeggino piegato, preso e calato addosso dall’alto, tipo piccone, una, due volte. E ancora: le dita dell’uomo che afferrano i capelli tinti di rosso della donna e strappano, tutta una ciocca, puttana, ora vedi cosa ti faccio, le resta il buco dietro all’orecchio.

La bambina piange, la sorella del ragazzino piange con tutto il fiato che ha, mentre lui riesce a staccare gli occhi dalla scena – perché non lo fermi?, perché non intervieni? – esce sul pianerottolo e urla.

Aiuto.
Aiutateci.
Aiuto.
Non esce nessuno.

Anzi no, un paio di minuti e la porta accanto alla loro si apre. Il vicino di casa. Che cazzo succede, venite, venite. Si infilano tutti lì, la madre coi due figli, ognuno da un padre diverso, rifugiati domestici. Il vicino che dice alla donna: chiama i carabinieri, lo devi denunciare. Lei che sfilandosi dalla nuca i capelli strappati dice: un animale, è un animale.

Il marito della donna va via di casa. Una settimana, due, poi torna: gli voglio dare un’altra possibilità, lo faccio per la bambina.

Il ragazzino non può fare niente. Accettare, subire. Sotto lo stesso tetto dell’orco. Per quanto? Per sempre. E invece no, una cosa la può fare. Lancia un incantesimo, il piccolo mago: traccia un cerchio dell’invisibilità attorno a quell’uomo. Non gli rivolgerà più la parola, non lo guarderà più in faccia, mai più, per nessun motivo, dovesse finire il mondo.

Mai più nella stessa stanza, per mangiare faranno i turni. Affinché quella sera d’inverno non scivoli nel dimenticatoio, affinché ce ne si ricordi, e la gente, gli adulti, ai pranzi, a Natale, alle feste, chiedano, non smettano mai di chiedere: ma perché fa così? che problemi ha?

Quel ragazzino ero io, sono stato io.

E oggi, che sono passati molti anni, non so se riuscirei a fare lo stesso, non so se potrei disporre della stessa ostinazione, della stessa assenza di connivenza.

Nell’impossibilità di cambiare le cose, intervenire direttamente – fermare la mano dell’uomo di casa, cacciarlo, o andare a vivere altrove – il ragazzino che sono stato ha messo in atto la sua forma di resistenza. Immerso in un mondo (le donne della mia famiglia) mentalmente e fisicamente abituato alla violenza, ha deciso (sentito) che non era giusto, che il male non poteva essere tollerato, normalizzato. Ha usato il canale che sentiva più suo, l’unico che gli era accessibile: le parole, la comunicazione. Il silenzio come sortilegio di protezione, antidoto alla rimozione.

In Favolacce, l’ultimo clamoroso film dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, il tema è proprio questo: con un’inversione della gerarchia simbolica e di senso a cui siamo abituati, sono i bambini, i ragazzini, che conservano la capacità di distinguere il bene dal male, che non chiudono gli occhi di fronte alle iperconformi oscenità degli adulti, i cui discorsi sono allo stesso tempo senza peso e asfissianti, atroci e normalissimi.

In una Spinaceto rivisitata e reimmaginata, tutta villette e giardini tracciati col righello, un po’ set di Malick un po’ Dogville, gli adulti delle tre famiglie protagoniste non fanno altro che recitare una parte, stritolati da una frustrazione che neppure vede sé stessa, che non sa ammettere la propria esistenza, e per questo rovina le esistenze limitrofe, di figli, mogli, vicini di casa.

Gli adulti fanno marcire i simboli dell’infanzia – piscine, palloncini, feste a sorpresa. Gli adulti, i grandi, non sanno affrontare la realtà, sono pavidi, in realtà piccolissimi. I problemi vengono ignorati finché non diventano letali, e se arrivano domande dai sedili posteri dell’auto, giù botte. Mentre è dai bambini che ci si può aspettare lo scarto: sono loro che si rifiutano di prender parte all’estinzione del senso morale e, dopo aver dimostrato la sopportazione dei santi, progettano la fine di tutto: con ogni mezzo, bombe, veleni, e alleandosi, riconoscendosi in un desiderio comune.

Tutto pur di non diventare così, qualsiasi cosa pur di non appartenere a questo palcoscenico di burattini deprimenti. Il mondo fatto finire dai ragazzini.

Si sente parlare di questo film come di un incubo, una fiaba nera: non sono d’accordo. O meglio: dipende a quale idea di fiaba ci si riferisce. Perché Favolacce è un film incredibilmente realista, che intercetta le tracce pulsanti dell’orrore più comune – quello che spesso permea il dogma della famiglia tradizionale – e sceglie di seguirle fino in fondo, prolungando le venature di male che sono già qui, da sempre. Alle quali, noi adulti, siamo perlopiù assuefatti e che permettiamo diventino i motivi portanti di vite intere, intere tragedie – diffondendosi sulla superficie della terra come un fungo, per usare un’espressione di Hannah Arendt – nell’incapacità di immaginare alternative all’ottundimento.

D’altronde le fiabe questo fanno, hanno sempre fatto. Soprattutto nelle loro versioni originali (pensiamo alle crudeli e macabre storie dei fratelli Grimm, piene di genitori sadici e, come si direbbe oggi, abusivi) prima che arrivasse la Disney ad addomesticare tutto, rimuovendo ogni occasione di crisi o perturbazione.

Le fiabe – lo mostra ad esempio Bruno Bettelheim nel suo Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli) – sono dispositivi per mettere in prospettiva bene e male, per trovare, all’interno del campo delle forze psichiche, un ordine, un posto per la responsabilità e la trasformazione. Movimenti impossibili da compiere se innanzitutto non si mantengono gli occhi aperti sull’abisso, se non si fissano i pericoli e le deformità emotive per come effettivamente queste si danno.

Perché, come scrisse uno dei più grandi filosofi del Novecento, Simone Weil: il vero male non è semplicemente il male. È la mescolanza di bene e male, il groviglio indistinto che impedisce di orientarsi, prendere posizione.

Ed è in questo senso che le fiabe ipnotiche e terribili dei gemelli D’Innocenzo sono importanti: instillano il dubbio che i bambini spesso tutto debbano fare fuorché imparare da noi.

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