All’interno della società nordamericana le radici puritane e iconoclaste della religiosità hanno fortemente condizionato l’approccio all’arte. In un gioco di accettazione e opposizione delle proprie radici storiche, l’arte nordamericana ha sempre oscillato fra aniconismo e figurazione. Che questa attitudine si sia manifestata nelle aree del nord e non nel resto del continente trova le sue ragioni proprio nelle diverse matrici religiose. Mentre cioè la colonizzazione ispanica del sud e del centro America produceva chiese che ospitavano immensi retabli, dove le culture originarie si mescolavano con quella cattolica in una orgia barocca di figure e deità, in nord America i luoghi di culto si caratterizzavano per un’assoluta mancanza di immagini e per la riduzione al minimo di ogni articolazione architettonica: nella chiesa puritana il mondo esterno viene espulso per accogliere il divino nella forma esclusiva della parola.

Il white cube – la presentazione delle opere in uno spazio bianco – che Alfred Barr realizza al Moma a partire dagli anni trenta del secolo scorso riflette tutte le caratteristiche estetiche della chiesa dei padri pellegrini. È all’interno di questa dinamica ideologica, tutta tesa alla sostituzione dell'immagine, sempre sospetta di idolatria, con la parola scritta che le oscillazioni fra figurazione e aniconismo tipiche dell’arte americana prendono corpo.

Alla fine del Settecento, dopo l’aniconismo assoluto dei padri pellegrini, la secolarizzazione dell’approccio all’arte di stampo illuminista incoraggiò la nascita di una scuola pittorica figurativa statunitense che culminò con le figure di John Singer Sargent, Winslow Homer e Thomas Eakins. Nel secondo decennio del Novecento, le prime avanguardie europee vennero accolte con una certa freddezza, mentre fra le due guerre si sviluppò un movimento di arte pubblica figurativa chiamato “regionalismo” che annoverava, fra gli altri, artisti del calibro di Grant Wood, Thomas Hart Benton e John Steuart Curry.

Espressionismo astratto

Il secondo dopoguerra fu caratterizzato invece da una fortissima virata aniconica dell'arte americana con l’Espressionismo astratto. Quello che successivamente fu considerato un movimento di recupero delle immagini, la Pop Art, in realtà corrisponde a qualcosa di simile a ciò che si fece a Bisanzio dopo le guerre iconoclaste.

La Pop Art fu una riscrittura di immagini prodotte dai mass media, che solo in quanto riscritte potevano trovare una via di accesso al white cube del museo. Tutto ciò che avvenne successivamente, incluso il minimalismo e l’arte concettuale, va compreso entro una oscillazione molto ristretta fra le due polarità sopra descritte, con una fortissima inclinazione verso il versante aniconico.

A che punto siamo oggi? La pittura figurativa non vuole più essere una riflessione sul suo statuto, vuole essere invece espressione di istanze politiche ed esistenziali esposte in forma narrativa. Ne sono una dimostrazione le opere di Kehinde Wiley, Kerry James Marshall, Nicole Eisenman, Robin Williams e di moltissimi altri, che recuperano con forza tutto il range degli strumenti di rappresentazione pittorica possibili, senza esclusioni di sorta: prospettiva, chiaroscuro, in qualche caso addirittura verosimiglianza anatomica e soprattutto la capacità di convogliare nuove narrative nell’immagine dipinta.

Diversamente dagli artisti della Pop Art, questa nuova generazione di pittori non usa la pittura figurativa per riflettere sullo statuto dell’immagine nel contesto della cultura di massa, ma per veicolare messaggi sociali, politici ed esistenziali.

Lo scarto con la Pop Art

Lo scarto con i Pop, che hanno inteso la pittura figurativa come scrittura, è tale da far pensare a un nuovo corso dell’arte americana. Un caso eclatante a questo riguardo sono le due enormi tele figurative legate a una narrazione esplicitamente omosessuale di Kent Monkman, canadese di ascendenza cree, comprate dal Metropolitan Museum di New York.

Buona parte di questi artisti figurativi a cui i musei stanno finalmente dedicando attenzione sono di origine afroamericana, donne o appartenenti alle comunità omosessuali.

Questo si deve al fatto che è in atto il tentativo da parte di molti musei di farsi perdonare la scarsa attenzione sin qui manifestata verso le cosiddette minoranze etniche e di genere, una tendenza più volte oggetto di contestazioni da parte di chi ha interpretato il fenomeno non come una vera conquista, ma come la manifestazione di una sorta di benevolenza paternalista delle classi dominanti.

Ciò starebbe a indicare che anche in questo caso l’opera, considerata come testimonianza, viene vista più come documento che come immagine da osservare. Le si attribuisce cioè valore in quanto prodotto di una certa etnia o comunità e non per il suo reale valore intrinseco.

Se si considera che nel corso del modernismo l’opera veniva valutata in funzione di una concezione evolutiva del linguaggio artistico, che le toglieva centralità a vantaggio della narrativa darwiniana entro cui era iscritta, si può comprendere come il meccanismo iconoclasta di marginalizzazione dell’immagine dipinta o scolpita a favore del “discorso” si mantiene costante.

 

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