Sorridi, inchinati al mondo, vai a prenderti i suoi applausi. Anche questo fa parte della routine delle ginnaste: fatti vedere felice, la giuria se ne ricorderà. Sono sorrisi finti? Non importa, piangi poi quando nessuno ti vede.

Simone Biles ha squarciato il muro della ginnastica, ci ha obbligato a vedere oltre i lustrini e le paillettes. Quelle del Giappone dovevano essere le sue Olimpiadi, la sua Tokyo 2020, i Giochi che l’avrebbero consacrata la migliore di tutte, la migliore di sempre. In effetti sono state anche le sue Olimpiadi, ma in un modo che nessuno si aspettava.

Nell’anno della Grande Depressione Sportiva, quel 2021 pandemico in cui molti atleti hanno parlato apertamente della loro salute mentale (la copertina del Time con Naomi Osaka e il titolo «It’s okay to not be okay» è emblematica) anche Simone Biles è caduta. Il mondo voleva vedere un’altra medaglia al collo, il quinto oro olimpico, lei ha perso l’equilibrio.

In ginnastica si chiamano twisties, e accadono quando il corpo smette di rispondere ai comandi della testa. «Giravo su me stessa e non avevo più la sensazione di dove fossi. È stato orribile, una orribile sensazione di vuoto», ha commentato la statunitense tempo dopo.

Il crollo

Una farfalla che si trasforma in pietra, ecco cos’era diventata Simone Biles nel 2021. Twisties appunto, non è l’unica ginnasta a soffrirne, ma la sua caduta è stata la più eclatante. La più rivelatrice. Come se il suo corpo da ginnasta, che tra i tanti obblighi a cui è sottoposto ha anche quello di risultare armonioso, docile (inchinati, ricevi gli applausi, non opporti ai trattamenti del tuo medico anche se non li capisci) si fosse ribellato nel luogo meno indicato per farlo.

Le Olimpiadi sono il luogo in cui si battono i record, in cui i campioni dimostrano di essere campioni, due anni e forse una vita intera di preparazione che volano via in una manciata di minuti in cui gli atleti devono fare una cosa sola: fornire agli altri la miglior versione di se stessi.

Biles aveva eseguito perfettamente il suo compito a Rio 2016, cinque anni dopo in Giappone il suo mondo era cambiato, il messaggio che ha trasmesso è stato forse ancora più importante: anche i campioni hanno il diritto di dismettere i panni da campioni.

Le copertine chiedevano l’oro, un altro oro, come se Simone Biles non fosse nient’altro che una macchina da medaglie, lei ha obbligato molte persone a un esame di coscienza. «Non devo niente a nessuno, posso smettere quando voglio», aveva detto prima di partire per Tokyo in un’intervista all’Équipe.

A una giornalista americana che le chiedeva quale fosse il momento più bello della carriera, lei aveva risposto: «Tutti quelli in cui non sono in questa palestra». E poi: «So di essere una grandissima atleta. Eppure quando mi tolgo la maschera non so bene cosa ci sia sotto».

Dietro la performance niente, o almeno questo è quello che vorrebbero insegnarti a fare per tutta la vita. Sorridi, inchinati al mondo, vai a prenderti i suoi applausi. Ti molestano? Non pensarci adesso, adesso ci sono i Giochi, il The Biles da preparare. Ti molestano? Guardati intorno, non sei l’unica.

Il dottor Nassar ha abusato sessualmente di almeno 260 atlete, ma tu non sei come loro, tu sei Simone Biles, c’è un salto che porta il tuo nome, hai un altro oro da vincere.

Gli abusi

Le ginnaste sono soldatini obbedienti, muscoli di ferro abituate ai signor sì, alle aspettative degli altri mai deluse, accomodanti per natura, non si sognerebbero mai di mettere in discussione la parola di un medico della nazionale che le convoca nel suo studio quando gli pare e piace per fare loro ciò che gli pare e piace.

Anche la Biles è stata una vittima di Larry Nassar: «È stata l’esperienza più vicina a una morte senza dolore che abbia mai provato», ha commentato. Nassar oggi sta scontando una condanna che va dai 40 ai 175 anni di carcere, giustizia è stata fatta, o almeno così sembra. Nel 2021 sono passati tre anni dalla confessione di Biles, un periodo ritenuto sufficiente per dimenticare gli abusi e ricominciare non a vivere, ma a vincere.

Pochi mesi prima di Tokyo sale in pedana ed esegue un doppio carpiato Yurchenko in una competizione ufficiale, è la prima atleta a provarci e a riuscirci, anche Michelle Obama si complimenta con lei: «continua a brillare».

È tutto pronto per il Giappone, la possibilità del suo quinto oro a cinque cerchi. Invece il Twisties, il ritiro dalle altre gare in programma, il ritorno in America con un solo bronzo al collo, nella trave. Una delusione.

Il ritorno

Ma i condannati alla vittoria hanno un unico modo per sorprendere gli altri: deluderli, sbattergli in faccia le loro sconfitte che molte volte sono la conseguenza del loro dolore. Da quel momento in poi, per Biles, due anni lontana dalle palestre, dalle gare e dai suoi inchini forzati, una casa da costruire, la vita di una donna che si prende la rivincita su quella dell’atleta, il matrimonio con il giocatore dei Green Bay Packers Jonathan Owens, nessuna maschera, soltanto sorrisi.

Ed eccola, quasi ventiquattro mesi dopo l’ultima volta, di nuovo in pedana, ai campionati nazionali americani. Ed eccola eseguire di nuovo il doppio carpiato Yurchenko. Questa volta per Simone Biles nessun twisties, nessuna perdita di equilibrio e nessun blocco mentale, ma una testa che comanda e un corpo che a ventisei anni risponde ancora in maniera impeccabile.

La pietra è ritornata ad essere una farfalla, l’atleta più anziana a vincere una medaglia d’oro nell’all around. «Come ti senti?» le hanno chiesto alla fine. «Mi sento felice» ha risposto lei. «Felice perché è finita, e felice perché c’è stata», una risposta che forse è il massimo grado della felicità, quella consapevole. Non ha parlato di futuro, ma riguardandola durante una esibizione è stato impossibile non pensare a Parigi 2024, il tempo giusto e il momento giusto per riprendersi il sacrosanto diritto di tornare ad essere una campionessa. Senza dover obbedire a nessuno, soltanto alla sua volontà, se è quello che vuole.

Da piccola Simone Biles a colazione mangiava acqua e cereali perché il latte costava troppo. A dieci anni pensava di essere troppo bassa e troppo nera per diventare una ginnasta. Nadia Comaneci non aveva niente in comune con lei e lei sì che aveva un fisico da dieci. I suoi compagni di classe da piccola la chiamavano swoldier, «soldatino gonfio».

Aveva troppi muscoli, per non vederseli indossava solo felpe oversize a maniche lunghissime. Alla fine però tutto ci riconduce al corpo, quel corpo su cui Simone Biles si è fatta tatuare la frase di Maya Angelou: «And still I rise». Simone Biles si risolleverà ancora.

© Riproduzione riservata