Sul tabloid statunitense Globe, nel novembre 2000 fu pubblicato un articolo intitolato “La gente grassa non va in paradiso!” (Fat  People Don't Go To Heaven!). La storia raccontata di seguito a questo titolo di dubbio gusto era quella di Gwen Shamblin, ideatrice del più affermato programma di dieta cristiana del tempo. Shamblin negava di avere particolari doti imprenditoriali, anzi, sminuendo in maniera piuttosto decisa il proprio talento, affermava di sentirsi solamente una bionda sciocca (a dumb blonde), ma con un cuore sinceramente dedicato a Dio.

Una bionda sciocca ma capace di trovare quel prodotto vincente che tutti desiderano: una guida spirituale capace di garantire la perdita di peso, oltre che un considerevole contributo alla crescita del conto bancario, verrebbe da aggiungere. Il titolo di Globe non rappresenta né il principio, né il culmine, né il punto finale di una questione molto viva, specie tra i cristiani statunitensi, quella del rapporto delle e dei fedeli con il proprio corpo.   

Primi passi

L’attenzione alla dimensione corporea e dunque maggiormente visibile della fede fu oggetto di pensieri e discussioni fin dai tempi della compilazione della lista dei vizi capitali da parte di Gregorio Magno (VI secolo), frutto anche della sistematizzazione del pensiero teologico precedente. Nella lista la gola occupava il primo posto, seguita da lussuria, avarizia, malinconia, ira, accidia, vanagloria e superbia.

La collocazione in cima all’elenco era da un lato segno di peso contenuto (si procedeva secondo un ordine gerarchico dal meno al più grave), dall’altro però indicava un percorso consequenziale, per cui la gola costituiva un impulso a perdersi nei vizi che la seguivano. A parere di Gregorio Magno il peccato di gola era costituito da comportamenti quali mangiare fuori dagli orari comandati, bere più del fisiologicamente necessario, nutrirsi sontuosamente, cercando magari alimenti sofisticati. Il rimedio più efficace contro simili tentazioni era il digiuno, capace di stabilire una forma di rinuncia prima di tutto individuale, ma pure collettiva e persino sociale, anche in quanto primo passo verso la castità. Evitare cibi particolarmente nutrienti si pensava infatti contribuisse a ridurre l’appetito sessuale.

Lasciamo Gregorio Magno, facciamo un salto temporale e spaziale non indifferente e torniamo agli Stati Uniti contemporanei. La fortuna del programma di Shamblin viene fatta risalire da indagini sociologiche condotte a cavallo di XX e XXI secolo (riportate in parte nel bellissimo libro di R. Marie Griffith, Born Again Bodies. Flesh and Spirit in American Christianity - Corpi rinati. Carne e spirito nella cristianità americana, 2004) a una difficilmente spiegabile correlazione: le ricerche suggerivano che a partire dagli anni Cinquanta almeno le persone più coinvolte nella pratica della religione cristiana fossero le meno magre. Il legame tra l’abuso di pollo fritto, carne di seconda scelta o bibite gasate e la salvezza eterna sfuggiva a molte e a molti, e in questo sfuggire seppero inserirsi programmi come quello raccontato da Globe.

Protagoniste

Potrebbero forse sembrare questioni d’altri tempi, difficilmente collocabili nella cultura corrente, dove - soprattutto negli Stati Uniti - l’attenzione a evitare giudizi sommari sulla qualità delle persone, basati sulla sola apparenza, pare essere molto viva. Le cose, invece, stanno diversamente. Magazine e siti piuttosto rilevanti per la cultura cattolica americana registrano che la questione del rapporto tra peso e paradiso è tuttora irrisolta. 

Una voce molto ascoltata è quella di Amanda Martinez Beck, che si definisce fat activist e body peace coach (difficile azzardare una traduzione della capacità di sintesi dell’inglese-americano, forse “attivista in difesa del grasso e istruttrice per un pacifico rapporto con il proprio corpo”). Autrice di libri di successo che insegnano ad accettare il proprio sovrappeso anche e soprattutto in relazione con la propria spiritualità, Martinez Beck  racconta di essersi convertita al cattolicesimo per la sua maggiore inclusività, rispetto ad altre confessioni cristiane fin troppo legate al pensiero di un paradiso vietato da peccati di peso. 

In un articolo apparso sul magazine dei gesuiti americani, America, Martinez Beck evidenziava nel 2020 come la Quaresima fosse, anche nella sua parrocchia cattolica, il momento meno facile da affrontare per chi, come lei, ogni qualvolta entrava in chiesa sentiva gli occhi delle e degli altri fedeli puntati su di sé. Occhi osservanti e giudicanti, come se l’evidenza di un cattivo rapporto con il digiuno la rendesse colpevole di chissà quale peccato di fronte a Dio e a suo figlio Gesù, capace di rinunce estreme nei quaranta giorni passati nel deserto. Metteva poi in risalto i problemi della vigente “cultura della dieta” (definita il miasma delle aspettative sociali), la quale giudica a peso la bontà di una persona e non consente alle persone obese di sentirsi a proprio agio neppure a casa propria: non si deve correre il rischio di ridurre la Quaresima a un piano dietetico.

A sostenere la posizione di Martinez Beck è anche la scrittrice Claire Willett, che in un lungo articolo apparso su US Catholic (Toward a theology of the fat body, “Verso una teologia del corpo grasso”) ha affermato che le chiese possono essere luoghi davvero “tossici” per chi è sovrappeso: vincolate ai propri pregiudizi sociali, le persone stigmatizzano con un semplice sguardo. 

Altre testimonianze riportano l’ambivalenza di una consuetudine piuttosto radicata nelle comunità cristiane (non solo cattoliche) statunitensi: quella della merenda dopo messa, quando vengono serviti dolci e caffè. In quelle occasioni si sfiora il controsenso, quando il momento comunitario della coesione sociale viene condito da sguardi giudicanti. Questo succede in quanto l’associazione tra virtù e magrezza risulta profondamente radicata nella cultura, non solo alimentare, statunitense. 

Iconografia

Un altro punto di discussione messo sul tavolo da fat activist cattoliche (il femminile è il genere nettamente prevalente in questo dibattito, a significare forse la maggiore difficoltà del maschio nell’esporsi in tutto il proprio peso) è quello della rappresentazione del corpo di Cristo, in particolare nel momento della passione o in quelli immediatamente successivi. Crocifissione e pietà, infatti, raffigurano abitualmente un uomo muscoloso, spesso scolpito (e non solo in quanto si tratta di statue). Perché la cultura dominante non ha mai suggerito la possibilità di immaginare Gesù sovrappeso?

La sua dimensione umana dovrebbe infatti quantomeno lasciare il dubbio che anche lui potesse non essere così in forma come viene raffigurato, anche se pensare alla grassezza di un uomo della Galilea del primo secolo pare davvero poco plausibile. I riferimenti evangelici non ci dicono che Gesù aveva un corpo perfetto e non c’è dunque motivo di pensare che lo avesse: semplicemente, da millenni ce lo siamo immaginato così.

A ben pensarci, negli Stati Uniti si ha familiarità con raffigurazioni artistiche di Gesù come un rifugiato, un uomo di colore, anche una donna, ma molto di rado come un uomo grasso, pare questo un limite che anche gli artisti faticano a superare. L’immaginazione gioca un ruolo radicato ormai in secoli di dibattito, la gola è peccaminosa, dunque non possiamo pensare alla raffigurazione di un corpo allo stesso tempo divino e abbondante. Come se la grassezza fosse sempre e solo una scelta considerata e poi presa, in piena consapevolezza da colpevoli. 

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