In questo periodo gli scrittori si infilano spesso nelle proprie opere, come dei blogger qualunque, e cercano di legittimare l’invenzione letteraria ancorandola all’attualità. Ma così sviliscono il proprio ruolo e quello della scrittura
- Da un po’ di tempo vige la moda di ‘fare i nomi’ nei romanzi, inserendovi lacerti di realtà controllabili sui giornali o all’anagrafe.
- Non solo nell’autofiction propriamente detta, ma anche nei non-fiction novel ispirati a delitti famosi o a vite in qualche misura notevoli, e infine in quelle forme di meta-narrazione per cui un autore non racconta una storia ma piuttosto il come e il perché lui abbia deciso di raccontare quella storia.
- Come se ci fosse bisogno di un sigillo di autenticazione, quelle che vi racconto non sono balle. Da dove nasce questo bisogno ?
Nell’ultimo romanzo di Emmanuel Carrère, Yoga, c’è un passo che riguarda il generale Massu, il torturatore d’Algeria; nell’intervista rilasciata a un settimanale il generale avrebbe detto, riferendosi alla tortura con gli elettrodi, «non bisogna esagerare, non fa poi così male, l’ho provata su me stesso».
La “stupida oscenità” di questa frase Carrère la trasferisce a ciò che talvolta pensano gli scrittori di autofiction: «sì, parlo male degli altri, però parlo malissimo anche di me stesso»: la differenza sta, riflette Carrère, nel fatto che se io ho in mano lo strumento decido io fin dove posso sopportare, mentre l’angoscia degli altri deriva dal non poter sapere dove io mi fermerò.
La giusta riflessione gli si è poi rivolta contro, ora che la ex moglie Hélène Devinck lo ha accusato di esser venuto meno ai patti (addirittura sottoscritti davanti a un notaio) di non aggredirla nei suoi scritti e di non parlare delle loro cose intime – accusandolo anche, al passaggio, di essere un bugiardo patentato e di aver trasformato una sola settimana trascorsa con lei a Leros in due mesi di insegnamento ai migranti là raccolti. Insomma, di travisare la realtà nel suo romanzo: bella scoperta, verrebbe da dire.
Fare i nomi
E’ vero che da un po’ di tempo vige la moda di ‘fare i nomi’ nei romanzi, inserendovi lacerti di realtà controllabili sui giornali o all’anagrafe: non solo nell’autofiction propriamente detta, ma anche nei non-fiction novel ispirati a delitti famosi o a vite in qualche misura notevoli, e infine in quelle forme di meta-narrazione per cui un autore non racconta una storia ma piuttosto il come e il perché lui abbia deciso di raccontare quella storia. Come se ci fosse bisogno di un sigillo di autenticazione, quelle che vi racconto non sono balle. Da dove nasce questo bisogno ?
In primo luogo, direi, dalla necessità di non essere sommersi nel diluvio usuratissimo di invenzioni inoffensive della letteratura d’intrattenimento; poi conta, in una realtà aumentata che pare sempre più finta, il piacere di sfidarla sul suo terreno, “allora ti insegno io come devi essere”; e di sicuro influisce il maggior appeal commerciale delle ‘storie vere’; né trascurerei lo smarrimento di fronte a una mutazione culturale che si percepisce come radicale, col conseguente rifugio in ciò che si crede di conoscere con più certezza, l’io (così fece Dante a suo tempo, e così Cartesio).
Darei meno peso all’esigenza di ‘essere coinvolti’: Dostoevskij non era forse coinvolto nelle crisi epilettiche del principe Miškin, pur scrivendo in terza persona e riparandosi dietro un nome fittizio ?
Scrivere è far male
Non si può narrare davvero senza far male a qualcuno, che lo si faccia in prima o in terza persona, con nomi veri o finti. Ne sa qualcosa Thomas Mann a cui i bravi cittadini di Lubecca tolsero il saluto dopo l’uscita dei Buddenbrook; e a loro rispose che la forma è crudele, che per ottenerla bisogna trovare in sé un «amore secondo» più forte dei rispetti umani, che soltanto così la letteratura tien fede al proprio compito di conoscenza mediante radiografia del reale, perché invece «alla realtà piace che le si parli con frasi sciatte».
Per disturbare e far soffrire non si deve nemmeno arrivare alla diffamazione indiscreta: c’è un’accorata lettera di una signora inglese a Flaubert, un’amica di famiglia, in cui lei si dichiara dispiaciutissima che un ragazzo buono e promettente come Gustave abbia sprecato il proprio talento in una storia squallida e miserabile come quella di Emma Bovary, e pensa a quanto dolore debba aver provato la povera madre dello scrittore leggendola. Certo, coi nomi veri la cosa è più diretta, più passibile di querela in tribunale; all’origine del romanzo moderno, nel Settecento inglese, c’è proprio la volontà da parte degli editori di sottrarsi alle denunce delle famiglie nobili e potenti: meglio raccontare vicende di gente comune e non identificabile (quale prostituta, se pure si fosse riconosciuta in Moll Flanders, avrebbe potuto citare Defoe in giudizio ?)
Dante poteva permettersi molto di più, perché la sua patria l’aveva già condannato a morte: se decideva di cacciare Branca Doria all’inferno mentre questi era ancora vivo, bastava assicurarsi che il suo protettore del momento fosse nemico dei Doria. Lui lavorava per l’eterno, e lo sapeva.
Torniamo ai giorni nostri: c’è chi ha interpretato l’intervista della ex moglie di Carrère come la ribellione delle donne che si rifiutano di essere ancora le ‘muse’ degli scrittori maschi; il che naturalmente è giusto, e ha precursori: già più di quaranta anni fa la zia di Vargas Llosa rispose a La zia Julia e lo scribacchino con una propria versione dei fatti, e più di ottocento anni fa Eloisa aveva dato una bella lezione sull’amore ad Abelardo.
Chi è Harvey?
Molto più tragicamente, trent’anni fa Serge Doubrovsky nel Libro spezzato aveva messo in scena un gioco al massacro tra marito e moglie proprio facendoli discutere insieme di un libro che raccontava la loro intimità, concluso nella realtà con la morte della moglie, la più fragile della coppia. Ma non è che le donne, quando sono loro a scrivere, si trattengano da attacchi pesanti: Emma Cline non scrive il cognome Weinstein nel suo Harvey, ma il nome di battesimo basta e avanza.
Più che farne una questione di genere, mi pare che il rischio sia un altro: sia cioè la confusione che nasce tra l’autore come persona empirica e l’autore come personaggio dentro la propria opera. Come se l’indistinguibilità dei due piani mettesse in comune le responsabilità, e il personaggio dovesse scontare sul piano estetico il giudizio morale sulla persona (se Carrère è misogino e bugiardo, allora non mi piace nemmeno il suo romanzo).
Io credo che le due cose debbano restare nettamente separate: in quanto cittadino, l’autore deve essere pronto ad accettare tutti i rancori privati o eventualmente le condanne penali previste dalle leggi dello Stato; in quanto scrittore, il suo unico dovere è lasciar fare e dire al proprio io letterario tutto quello che l’ispirazione gli detta. E pretendere che la sua opera venga giudicata in quanto ‘forma’ (comprendendovi anche la ‘forma del contenuto’, cioè la scelta e la disposizione dei temi).
Autore o personaggio?
Nella teoria letteraria (quando ancora esisteva una teoria letteraria, anzi ce n’era perfino troppa) la distinzione tra autore e personaggio era chiara, come era chiaro il discrimine tra il ‘giudizio di valore’ (cioè la bellezza di un testo, legata a criteri come la coerenza dei livelli, la novità rispetto agli stereotipi, la tenuta stilistica) e il ‘gusto’ dipendente dalla varietà delle circostanze pubbliche e personali. La Storia è una somma di ingiustizie e di errori, ma per eliminare ingiustizie ed errori non è una buona idea eliminare la Storia. I classici, più o meno tutti, hanno avuto lettori o periodi storici a cui non sono piaciuti. Ma sono rimasti classici, e per cambiare il canone ci vuole tempo e pazienza (Le illusioni perdute è un romanzo migliore della Capanna dello zio Tom, e non basta il movimento Black Lives Matter per sovvertire il giudizio); non basta sostituire al bello/brutto un mi piace/ non mi piace, bisogna convincere con buoni motivi – non possiamo ridurre la storia della letteratura a una cronaca della letteratura.
Le rivoluzioni nel campo letterario possono accadere: bellezze che parevano consolidate non sono più considerate tali, mentre altre vengono scoperte dopo essere state negate per secoli; ma non ha senso che il processo venga accelerato perché in questo periodo gli scrittori si infilano più spesso nelle proprie opere, come dei blogger qualunque.
La letteratura è un’attività élitaria come l’architettura e la chirurgia, non tutti possono progettare un ponte o applicare uno stent coronarico; solo perché le parole sono di tutti, non è una buona ragione per praticare lo spontaneismo, anzi il populismo letterario.
Quel che potrebbe accadere
Gli storici, diceva Aristotele, raccontano quel che è accaduto, i poeti [leggi: gli scrittori creativi] quel che potrebbe accadere; il diaframma tra i due mestieri si è fatto sempre più sottile: un romanziere di razza come Javier Cercas protesta continuamente di non potersi permettere l’invenzione, ma ogni scusa è buona per trasgredire.
Nel Sovrano delle ombre racconta la storia di un suo prozio, morto giovanissimo combattendo per la Falange franchista, e si chiede a lungo quanto questo racconto possa far soffrire la famiglia, tutta di simpatie falangiste all’epoca e per la quale quel giovane è sempre stato un eroe.
La madre lo accompagna nell’ultimo sopralluogo e reca sul viso sia la pena che la soddisfazione – il risultato è ambiguo.
Mentre per il giornalismo la libertà di ‘fare i nomi’ si connota necessariamente come coraggio, per la letteratura la frequentazione della cronaca si arricchisce (o si sporca) di sfumature ambivalenti; la sua libertà è anche libertà di travisare e mentire, per fedeltà a impegni di più lungo periodo o semplicemente per vigliaccheria.
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