The Circle. Soluzioni per un futuro possibile è la mostra di Luca Locatelli allestita a Torino a cura di Elisa Medde. Un’occasione per riflettere su un tema di attualità ma anche sulle sorti della fotografia documentaria
«Questa dottrina infatti sembra / troppo amara a chi non l’ha ancora assaporata e la folla / quando la incontra indietreggia piena di spavento: / così ho deciso di esportela con l’armonioso canto delle Pieridi / e avvolgerla, per così dire, nel miele soave della poesia, / sperando di tenere il tuo spirito sospeso ai miei versi / e permettendoti così di capire quale forma e quale figura / viene ad assumere la natura universale di tutte le cose».
Sembra forse troppo scomodare il poeta Milo De Angelis e la sua recente traduzione del De Rerum Natura di Lucrezio (Mondadori, 2022) per commentare una mostra di fotografia. Ma il caso di The Circle. Soluzioni per un futuro possibile di Luca Locatelli alle Gallerie d’Italia di Torino, a cura di Elisa Medde, è ghiotto per riflettere sulle sorti della fotografia documentaria, in generale, e della vocazione della sede espositiva di Intesa Sanpaolo, in particolare.
Economia circolare
La “dottrina” amara, in questo caso, è quella dell’economia circolare, che sta molto a cuore non solo al fotografo in mostra, ma anche alla prima banca italiana, che ha commissionato il lavoro. Locatelli è un professionista di fama internazionale, collaboratore di National Geographic, New York Times, Time e New Yorker, e vincitore del World Press Photo, il maggior riconoscimento per il fotogiornalismo.
Negli ultimi anni ha girato il mondo per documentare alcuni esempi di soluzioni creative e tecnologiche per generare energia pulita, produrre prodotti sostenibili e riciclare materie prime. Diciotto realtà: dall’Islanda alla Slovenia, dalla Germania alla Norvegia e poi Francia, Austria, Svizzera, Spagna e Italia. Tutte esempi di innovazione al servizio di un’idea di sviluppo circolare che si pone come alternativa all’impostazione lineare, basata su sfruttamento e accumulo, ereditata dalla Rivoluzione industriale.
Natura e uomo
Le fotografie presentate in mostra sono di grande formato. Le immagini della natura si alternano a quelle delle creazioni umane ad alta tecnologia. La lingua bianca di un ghiacciaio. La gelida texture delle pareti di un crepaccio. Le volte striate di verde e di giallo di una ex miniera. Il sole pallido e lontano visto dal cannocchiale di una torre di raffreddamento. E poi le coloratissime visioni di stabilimenti convertiti in centri ricreativi; cumuli di vestiti che ricordano l’indimenticabile istallazione di Christian Boltanski al Grand Palais di Parigi; un’iride verde-rosa che scopriamo essere una coltivazione subacquea di basilico ligure. Quasi sempre, se non si legge la didascalia, non si è in grado di capire quale sia il soggetto dell’immagine.
Spiega il fotografo: «Io cerco di creare immagini che abbiano una forza magnetica che attragga la curiosità e porti ad approfondire i temi che ho scelto di trattare. Per questo, sempre di più, tendo a privilegiare gli scatti in cui prevale la componente astratta dell’immagine. In cui non è subito chiaro di che cosa si tratta».
Per la curatrice Elisa Medde, fino a pochi mesi fa direttrice della rivista olandese Foam, punto di riferimento della fotografia contemporanea, il percorso di Locatelli, documentarista puro di formazione, sta andando in una direzione che si affaccia alla dimensione artistica: «Il suo tentativo è quello di abbracciare l’opacità della realtà.
Per questo decide di privilegiare le atmosfere per parlare con la poesia». Il “miele di Lucrezio” è usato per suscitare stupore e fascino che portino lo spettatore ad approdare alla conoscenza. «Ma non può essere un trasferimento passivo. Occorre che chi guarda l’opera ci metta del suo», spiega la curatrice: «La divulgazione dei temi della contemporaneità richiede l’attivazione della mossa personale. Altrimenti non sarà mai efficace».
Immagini e dati
Dal punto di vista della curatela, continua Medde, la sfida della mostra era quella di presentare il lavoro di Locatelli insieme alla grande quantità di dati che sottendono alle fotografie, in modo che fossero leggibili da un pubblico generalista.
Da qui le raffinate infografiche di Federica Fragapane, i testi di sala, le didascalie e gli approfondimenti accessibili con una app o tramite QRCode. Tanto materiale confluito anche nel volume edito da Skira. «Ho cercato di immaginare il percorso come una piattaforma editoriale dentro cui il corpo si immerge per conoscere».
L’operazione torinese, nel suo complesso, sembra riuscita: immagini convincenti, curatela equilibrata e decisa, allestimento azzeccato. Eppure all’uscita delle sale di piazza San Carlo ci inseguono annosi interrogativi che riguardano, come dicevamo, sia la vocazione della fotografia documentaria, sia l’ambizione dello spazio di Intesa Sanpaolo.
Nuove strade
Diversi anni fa il fotogiornalismo e la documentaristica per immagini sono entrati in crisi. Ci sono ragioni che hanno a che fare con il mercato editoriale esanime e questioni che riguardano direttamente lo statuto di affidabilità che può avere una testimonianza fotografica (e questo accadeva diversi decenni prima della comparsa dell’intelligenza artificiale).
La comunità dei fotogiornalisti, per istinto di sopravvivenza, ha dovuto percorrere strade nuove, di solito spingendo il piede sul pedale dell’autorialità. Le soluzioni trovate sono diverse. Qualcuno ha usato la storia dell’arte come modello per rendere le proprie immagini più evocative e universali (quante “pietà” ci sono arrivate dai fronti di guerra). Altri hanno percorso la strada dell’arte concettuale, catalogando – a mo’ dei coniugi Becker – reperti e testimonianze come tasselli di uno storytelling più contemporaneo.
Altri, forse i più disillusi, forse i più ambiziosi, si sono lasciati alle spalle il giornalismo per diventare autori, come quando un buon cronista inizia a vestire i panni del romanziere. In questo senso, i membri della più prestigiosa agenzia fotografica del mondo, la Magnum Photo, costituiscono un buon esempio della varietà di approcci praticati oggi.
Fidarsi della fotografia
Per chi propone il progetto di un fotografo che viene dal mondo del fotogiornalismo, la sfida è capire se abbia fatto o no il salto di qualità necessario per ascriverlo nel novero degli autori e, nel caso, se proponga un lavoro di qualità o meno. Quale può essere la bussola?
Verrebbe da usare un’espressione del poeta irlandese Seamus Heaney che, nel suo discorso al conferimento del premio Nobel, chiedeva che fosse «dato credito alla poesia». Lo stesso si potrebbe dire per le immagini. L’autore, l’artista, è chi si fida fino in fondo del linguaggio della fotografia, perché sa che esso è in grado di esprimere ciò che altrimenti non si potrebbe comunicare.
Se un testo, o una didascalia, è in grado di sostituire l’immagine senza perdita di significato, vuol dire che, alla fine, l’immagine è superflua. Mentre alcune immagini sono in grado di dire qualcosa di indicibile con le parole, analogamente a quanto accade con la musica.
Certo, il presupposto è che, perché avvenga la comunicazione, lo spettatore comprenda la lingua in cui il messaggio è scritta. Cosa per nulla scontata, soprattutto in Italia, dove un’educazione all’immagine fotografica è praticamente assente. Anche se, per fortuna, la magia della grande arte è spesso in grado di ovviare a questo ostacolo.
Rischio cattedrale
E qui si pone il tema della missione a cui è chiamato uno spazio come quello delle Gallerie d’Italia di Torino, istituzione quasi unica nel panorama della fotografia in Italia. Da una parte, giustamente, non può trasformarsi in un tempio di una setta di amanti di linguaggi incomprensibili ai più, dall’altra non può neanche ridursi a proporre gli autori di cassetta dal contributo culturale insistente o anacronistico (e facciamoli i nomi: Steve McCurry, Vivian Maier, Robert Doisneau, Elliott Erwitt…).
Il destino delle Gallerie d’Italia non può essere quello di una cattedrale nel deserto ma, avendo le risorse che altri non hanno, l’augurio è che diventi quel luogo che manca in Italia, in cui le persone comuni (che hanno tutto il diritto di non conoscere a memoria la storia di questo medium) possano accedere al meglio della fotografia del presente, non solo del passato o del passato remoto.
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