- Scuola di nudo, il primo romanzo di Walter Siti (nonché il primo grande romanzo autofinzionale della nostra letteratura) fu, alla sua uscita, un mezzo terremoto: la voluta e provocatoria non chiarezza tra autore e personaggio, tra fatti accaduti e fatti inventati, mandò molti in confusione.
- Scuola di nudo fu l’epopea dinamitarda e farsesca di un nuovo tipo di antieroe, un metasuicidio ad altissimo voltaggio stilistico: una bomba, non foss’altro per una capacità di attrito che non si credeva la letteratura potesse ancora suscitare.
- Oggi, a quasi trent’anni di distanza da quel libro, l’autofiction è un dispositivo letterario ormai consueto. Se Walter Siti, insieme ad altri (da Carrère a Knausgård, da Lerner a Cusk, da Ernaux a Nelson), ci ha dato non solo delle opere ma anche un diverso modo di fare letteratura, qual è oggi lo stato di quel contributo?
Ho letto con grande interesse intervento di Walter Siti per “Multipli Forti”, il festival dedicato alla narrativa italiana contemporanea svoltosi a New York il 6-7-8 giugno presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York e pubblicato da Domani. Una dichiarazione di poetica e, insieme, riepilogo artistico da parte di un autore di cui, lo dico da subito, ho letto sostanzialmente tutto, e che ritengo essere il più importante scrittore italiano vivente. Siti ha ripercorso la sua carriera di narratore mettendo al centro quel concetto di autofiction di cui lui è, in Italia, l’inauguratore e l’esponente più autorevole.
Dell’autofiction Siti ha voluto rivendicare la piena dignità letteraria e politica: e non capisco se lo fa a titolo esclusivamente personale o a nome dell’intera tendenza – se insomma, quella dell’autofiction è per Siti non solo una categoria, ma una paternità di cui gli si possa chieder conto.
Scuola di nudo, il primo romanzo di Walter Siti – nonché il primo grande romanzo autofinzionale della nostra letteratura – fu, alla sua uscita, un mezzo terremoto: la voluta e provocatoria non chiarezza tra autore e personaggio, tra fatti accaduti e fatti inventati, mandò molti in confusione. Quando, dal 2011 al 2015, sono stato ricercatore universitario in una facoltà umanistica, di Siti si parlava ancora come di uno scrittore-terrorista, un kamikaze che aveva fatto saltare se stesso insieme al banco, mescolando diavolo e acqua santa – vita e letteratura – in una miscela esplosiva.
Scuola di nudo fu l’epopea dinamitarda e farsesca di un nuovo tipo di antieroe, un metasuicidio ad altissimo voltaggio stilistico: una bomba, non foss’altro per una capacità di attrito che non si credeva la letteratura potesse ancora suscitare.
L’autofiction oggi
Oggi, a quasi trent’anni di distanza da quel libro, l’autofiction è un dispositivo letterario ormai consueto: chi l’ha sposato lo ritiene un congegno narrativo acquisito da cui non si può più tornare indietro; chi lo osteggia, lo ritiene una moda che ha inondato la scrittura contemporanea di testimonianze, confessioni, memoirs. Il nostro panorama letterario è tuttora costellato di scrittori che usano il proprio io come personaggio, e si mettono in campo con la propria storia personale e il proprio nome e cognome. Non so se l’autofiction ha vinto o perso la sua partita, ma di certo non è più una strategia minoritaria.
Credo di non offendere nessuno se dico che in queste operazioni non c’è più traccia del carattere eversivo di quell’esordio. La posta in gioco extratestuale – quella che in Scuola di nudo Walter Siti giocava, solo contro tutti, nella feroce nicchia del mondo accademico o, in Troppi paradisi, nella suburra della televisione commerciale – è ridotta al minimo.
A parte alcuni casi (come quello di Teresa Ciabatti che con La più amata l’esplosivo se l’è piazzato addirittura sotto casa sua), la potenzialità di rischio di questi espedienti si è diradata, andando a esplorare dimensioni diverse. L’autofiction è oggi spesso il territorio della confessione e della memoria; il suo racconto è inteso come condivisione, messa in comune delle proprie debolezze, dei propri dolori, dei propri traumi; il tentativo autoanalitico di rendere trasparenti i propri meccanismi. Ma è scomparso il pericolo.
Il lettore riceve questa scrittura senza più distinguere la prova letteraria dall’onere della testimonianza. Che la narrazione sia attendibile o no è un problema ormai archiviato da tempo, così come nessuno oggi si chiede più se gli influencer su Instagram siano davvero così anche fuori dall’inquadratura delle dirette.
Un filo ininfluente
Oggi, difendendo la sua paternità e insieme circoscrivendola, Siti dice che «per passare dall’autobiografia all’autofiction non basta la brillantezza dello stile». Quello che le differenzia, dice, è una «struttura ferrea». Verrebbe da chiedere: davvero è solo questo? Quello che rende la trilogia del Dio impossibile qualcosa di molto diverso da un memoir è la stessa ragione che ne fa uno dei rari capolavori della nostra letteratura recente: funziona come una parabola, e nelle parabole il nome proprio è superfluo.
A distanza di trent’anni, l’autosufficienza del suo protagonista è più che mai evidente: il filo che lega lo scrittore-Walter Siti al Walter Siti-personaggio è precario e tutto sommato ininfluente. La sua epopea si è guadagnata da tempo l’autonomia dall’autore; il personaggio potrebbe chiamarsi in qualunque altro modo. Quel filo sarà pure stato l’espediente necessario per l’attivazione di un processo creativo, ma è un nesso che riguarda l’officina dell’autore. Agli occhi del lettore, il Walter Siti-personaggio non ha dal suo autore una distanza molto diversa da quella che Madame Bovary ha da Flaubert o Moll Flanders da Defoe.
Si può però dire lo stesso dei suoi tanti figli e nipoti? Se Walter Siti, insieme ad altri (da Carrère a Knausgård, da Lerner a Cusk, da Ernaux a Nelson), ci ha dato non solo delle opere ma anche un diverso modo di fare letteratura, qual è oggi lo stato di quel contributo? Cos’ha portato – e cos’ha tolto – l’autofiction al nostro discorso letterario?
Nei pressi dell’io
Sono dubbi, i miei, e non certezze. Ma un po’ viene il sospetto che, nata come incendiaria, l’autofiction sia finita oggi a fare il pompiere. E che abbia stipulato con la cultura dei social network un accordo che la lega agli stessi vizi di fondo: egocentrismo, narcisismo, continua proiezione di un’immagine di sé; autocommiserazione (e conseguente autobenedizione), ansia di condivisione, vertigine dello specchio, confusione tra sincerità e verità: un’idea autocentrica dell’esperienza, basata sulla convinzione, tanto taciuta quanto solidamente radicata, che quella che Siti definisce “l’architettura del reale” sia sempre rintracciabile negli immediati pressi dell’io.
In questo senso, spesso il libro autobiografico finisce per diventare non un’opera, ma un “momento del sé”, la tappa di quell’idea molto americana del “percorso positivo”: un tragitto che è testimonianza, messaggio, esibizione del buono o cattivo esempio, self-building – un’inesausta narrazione del sé di cui il romanzo non diventa che uno fra i tanti diversi strumenti. Come se – distorcendo Madame Pompadour – fuori dall’io ci fosse solo il diluvio.
Lo confesso: sento il rischio che stia accadendo (o che sia già accaduto) quello che proprio Siti denunciava in Contro l’impegno: che si usi l’autobiografia come garanzia del valore di un testo, come se bastasse la buonafede a legittimare un’operazione letteraria: non discuti un’opera – discuti me stesso.
Il dubbio non è quindi se l’autofiction possa essere politica quanto la fantascienza o il romanzo sociale (sappiamo bene che può); ma che l’autofiction si stia sviluppando al riparo di alibi e connivenze e ambiguità di cui fantascienza e romanzo sociale non soffrono. Il dubbio è che si sia finiti tutti in un cul-de-sac, incastrati in un patto faustiano col presente, facendogli passare quello che mai avremmo dovuto fargli passare: e cioè che solo la vicenda biografica legittimi il racconto, e che l’unica forma di verità sia la testimonianza diretta.
Dostoevskij però non è Dostoevskij per Memorie da una casa di morti. Il punto non è chi sia “più sincero” tra Miguel de Cervantes o Benvenuto Cellini, ma quale modalità espressiva – mi si passi il termine – parli “più verità”.
Alla ricerca di un altrove
Le pagine di Siti che più mi impressionano sono proprio quelle più implausibili e irrealistiche – quelle che portano non verso l’autore ma verso fuori, alla ricerca di un altrove dell’esperienza e del linguaggio. Una dimensione sempre più difficile da trovare oggi, in un panorama che trasforma immediatamente il racconto in un’esca per far dire al lettore “anch’io” o “io invece”.
Come diceva Carmelo Bene, il privato è spesso il participio passato del verbo privare; il privato è un mutilato, qualcosa a cui manca un pezzo. Se fossi costretto a dare un nome a quello che forse la tendenza autobiografica ci sta togliendo, direi che è proprio il fuori: il fuori dell’esperienza, il fuori del comune linguaggio, il fuori del plausibile – il fantastico inteso non come sovrannaturale ma come eccedente, straniante, anomalo. Quell’altrove che cerchiamo oltre il perimetro della nostra biografia, un po’ come il cancello sorvegliato nella novella Davanti alla legge di Kafka: qualcosa che è lì per te da sempre, ma solo se ti concedi la violenza di provare a forzarla.
Mi domando quindi: cosa resta della fiction, se e quando viene privata dell’“auto”? Non rischierà presto di apparire un’operazione anacronistica, irrimediabilmente superata? La vicenda di un individuo inventato potrà ancora essere considerata allo stesso “livello di verità” di quella di un individuo “reale”, dal momento che facciamo della “realtà” l’unica patente della verità?
E ancora: è possibile una vera libertà espressiva, se ogni movimento è vincolato dalla necessità di restare davanti allo specchio? Non staremo, a poco a poco, rinunciando allo sconfinamento, all’eccedente, al simbolico, all’oltranzistico? Alle favole, alle parabole, ai misteri?
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