Il protagonista di Ritorno in Puglia di Marco Ferrante (Bompiani), romanzo più unico che raro, è Bernardo Bleve, gentiluomo salentino, discendente di proprietari terrieri e industriale (bibite gasate Aranbleve), attento amministratore di persone e cose, con qualche eccentricità dichiarata sin dall’incipit: «Come estremi simbolici – avrebbe detto lui stesso – Bernardo Bleve detestava la commedia all’italiana e i lampioni a forma di palla nei giardini».

Bleve è sposato con Elena, una donna bella con «una distante biondezza alla Kim Novak». Grazie a lei ha scoperto «la confidenza femminile, l’amore come relazione, una sessualità paritetica e a volte persino gioiosa».

Un’altra sua scuola sono stati gli anni Settanta, più che i Sessanta. L’epoca del divorzio, dell’aborto, della crisi energetica, della politica «ancorata a problemi reali». E poi, in termini di stile di vita: «Il prêt-à-porter invece delle sartorie, le automobili – Bleve adorava la CX, ma non la comprò mai – l’opzione consapevole degli amori adulterini, il ruolo della donna, mangiare fuori, i mobili bar in casa – dove alle anisette si sostituivano i gin & tonic e gli shaker per Negroni, Martini e Daiquiri –, tutto spingeva verso un mondo materialmente nuovo». E, ancora, il «battito pulsante» delle radio libere, «un ritmo di musica disco, che si sovrapponeva al languido malessere dei cantautori». Certo, quella fu anche la stagione del terrorismo, ma a Tisa, la patria e il teatro di Bleve, fu come una guerra lontana.

La moglie e i figli

Malgrado nella sua educazione sentimentale sia presente l’«opzione consapevole degli amori adulterini» (frase di conio márqueziano, direi), Bleve ha avuto i suoi tre figli dalla stessa donna, la moglie Elena.

A loro ha cercato di trasmettere la sua idea della vita, quella dell’«Occidente filoamericano incubato nel dopoguerra», dei film di Hollywood, di Hoover (nel senso dell’aspirapolvere e non del capo dell’Fbi), dei pick-up (a bordo di uno di questi perlustra il suo agrumeto). Ma Bleve dubita che i rampolli abbiano ereditato le sue idee, i suoi gusti. La moglie Elena non ha nemmeno il beneficio del dubbio: «Quando la sera si guardava allo specchio, sentiva il brivido della matrigna. Non erano come li avrebbe voluti, li amava sì, ma con dolore».

Quello amato con più dolore è il primogenito Gelasio, broker a Londra, ricchissimo, crudele non soltanto in campo finanziario, ma anche in amore, quello con una ragazza del popolo, non del suo rango: Giovanna, capelli color malva e un’oscenità primitiva (insana e inconsapevole libidine?). Una storia furiosa e velenosa. Ecco una clip della loro maniera di amarsi, di prendersi e di perdersi: «Giovanna lo guardava con lo stupore – un po’ fraudolento, pensano gli uomini – delle femmine in amore, lui senza neppure baciarla si abbassava i pantaloni e le intimava di procedere. Spicciamente».

Dagli strascichi di questa liaison verrà molto male a casa Bleve.

Personaggi spiati

Come aveva già superlativamente mostrato nel romanzo precedente Gin tonic a occhi chiusi, Ferrante raccoglie sui suoi personaggi dossier documentatissimi come un giudice istruttore, una spia. Sbirciamo nel dossier su Gelasio, il primogenito dei Bleve, nato nell’anno di Sgt. Pepper’s (1967) e investito diciottenne da «migliaia di informazioni contraddittorie e pazzotiche», dall’avvento della tecnologia giapponese alla fine del punk. E poi (Ferrante è il più estroso compilatore di liste in attività): «L’Nba e le Converse, l’incipiente fine del comunismo, lo scudo spaziale, l’inversione dei rapporti di forza maschio & femmina... la reciprocità nel sesso orale… i jeans a vita alta, lo sport come metafora… la superiorità della Porsche 911 anche in relazione alla continuità stilistica e alla longevità come tendenza all’assoluto… la prospettiva a lunga scadenza della telefonia mobile, l’Omega Ploprof…».

Felice e dolce (pure nel senso delle dita d’apostolo, i cannoli di crêpe d’uovo nell’antica ricetta di monaci calabresi, di cui è ghiotto) è la vita di Bernardo Bleve, ma un giorno qualcosa la sconvolge. Nell’indifferenza quasi generale una motovedetta italiana sperona e affonda una nave piena di fuggitivi all’epoca della diaspora albanese (è la storia, vera e infame, della Katër i Radës colata a picco nel Canale d’Otranto il Venerdì Santo del 1997). L’immagine di quei morti annegati, assieme ai loro «desideri, affetti, speranze, amori, corpi, figli nella pancia», perseguita Bleve. Non si rassegna che la tragedia sia liquidata in un furbesco ed elusivo dibattito sulle regole d’ingaggio, osservate o meno, dalla motovedetta speronatrice.

Perry Mason degli albanesi

La voglia di giustizia che anima Bleve viene scambiata per l’ennesima eccentricità, al pari del suo odio per lampioni a palla, pietre a vista, neon, tegole rosse, prati all’inglese, rotonde stradali. E, su scala più grande, la sua diffidenza verso il «bovarismo collettivo», malattia endemica del Mezzogiorno d’Italia, «e cioè una ipersensibilità alquanto fasulla sullo spirito dei luoghi», con quella pretesa meridionale di sentirsi riserva antropologica: «La Candelora, le cozze crude, la Quaresima, i santi eremiti», e soprattutto (e in questo non posso non dirmi bleviano) «quella indegna gazzarra di pizziche, munacieddi e altri incantesimi». (Io aggiungerei: Negramaro, Lino Banfi, Pio e Amedeo e, dato che ci siamo, padre Pio e Checco Zalone).

Bleve diventa il Perry Mason degli albanesi in fuga. Sarà vera generosità o carità pelosa? O, forse, le cose stanno come gli urla il suo fraterno amico, l’avvocato Peppino Inglese: «Non te ne frega niente di questa gente, ti importa solo di te e della tua reputazione di aristocratico progressista... ma la reputazione ci distruggerà! Come fai a non capirlo?».

A questo punto entra in scena (in veste di nemesi?) Admir Isufi. La sua biografia (dapprima liderino comunista, poi agente segreto, quindi mercante di persone e di armi) è l’edizione digest della tormentata storia dell’Albania alla fine del secolo scorso. In un brano che definirei paciniano (nel senso di Al, il grande attore di Il padrino e di Scarface), Ferrante racconta come Admir diventò un capo: «Nel 1994 liquidò una banda rivale che voleva il monopolio sul traffico verso l’Italia. Fu un’esecuzione mirabile. Nella notte gli uomini di Isufi uccisero uno per uno quelli della banda avversaria stanandoli nelle luride case in cui vivevano. Come i grandi banditi, Admir attese le notizie della mattanza chiuso nella stanza di una pensione di Valona in compagnia di una giovane e piacente ragazza che arrivava da Scutari. “Avrai tutto quello che vuoi,” le disse accarezzandola. Due settimane dopo la vendette per cinque milioni di lire nella kasbah di Bari vecchia. Quella notte cominciò la sua ascesa».

Tutto viene rimesso in discussione nella vita dei Bleve che, fino a quel fatale Venerdì Santo, sembrava un remake salentino di Downton Abbey, compresa la storia d’amore (il rovescio della storia d’odio di Gelasio e Giovanna) tra Pietro, il figlio più piccolo di Bleve, e la bellissima albanese Aurora, brillanti come eroi di Fitzgerald: «La gente si voltava a guardarli, per l’incorrotto scintillare». Tenera era la notte…

Una partita di burraco

Tutto precipita, ed Elena, la Kim Novak di Tisa, cerca di interpretare gli accadimenti alla luce del suo gioco di carte preferito (tutti i giochi sono, in fondo, manuali esistenziali): «Quando era in difficoltà nella vita, Elena provava sempre a proiettare la medesima vita in una partita di burraco. Non era un fatto metaforico, era un prontuario, tutto si spiega col burraco. Si era incartata, pensò. Una sola carta in mano e a terra non aveva ancora la canasta».

Chi vincerà l’ultima mano di burraco nella partita dei Bleve? Di sicuro, Marco Ferrante ha stravinto la sua con il romanzo, grande e definitivo, sul Mezzogiorno d’Italia ultimo scorso. Un libro dalla stoffa ricamata e complessa (la stessa dei Viceré, del Gattopardo, di Parenti lontani).

Niente voti, ma un’esclamazione: Stupor Mundi!, come era detto Federico II di Svevia che imperò sugli stessi luoghi dove ha imperato Bernardo Bleve.

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