Il rugby a 7 non ha niente a che fare con il calcio a 5: si gioca sul campo regolamentare, a palmi 100 metri per 65, sette minuti per tempo, per finire asfissiati. Se il rugby a XV è una battaglia costruita su una raffinata strategia, il rugby a 7 si risolve in un succedersi di rapide scaramucce.

Le fasi statiche sono ridotte all’osso (veloci mischie tre contro tre), non ci sono colossi ma soltanto giocatori di rapida intuizione, capaci di sfruttare gli spazi, aprire corridoi, difendere con la stessa rapidità. I fijiani dettano legge per queste caratteristiche: riciclano la palla in un susseguirsi di ricami.

Avevano vinto due ori finora, hanno perso la finale con la Francia. Il gioco si è diffuso ovunque: in Kenya, dove non c’è tradizione per il XV, in Cina (a Parigi giocherà la squadra femminile), negli Stati Uniti, specie in ambito universitario. Non hai bisogno di grandi strutture, non è difficile mettere assieme una veloce dozzina.

Non è un’invenzione dello sport moderno, così compiacente con la televisione. Il rugby a 7 è molto vecchio, più di 141 anni di vita e di storia.

Il giorno in cui lo scozzese Ned Haig, di professione macellaio, lo inventò, assomiglia a una scena di Momenti di Gloria: una festa campestre nelle Highlands, le torte portate da casa, le 220 yards per tutti, dai bambini ai giovanotti più prestanti, sino alla gara-clou quando il capo del villaggio dice a Eric Liddell – internazionale di rugby e ospite d’onore – se non è il caso che anche lui scenda in pista, che poi non è una pista ma un pezzo di prato adattato alla meglio.

E lui si toglie la giacca, si rimbocca i calzoni, non allenta le bretelle, corre e vince. Perché, lo diceva anche Isaia, correrai e non sarai stanco. Figurarsi uno pio come Eric.

Il giorno in cui Ned inventò il rugby a 7 assomiglia anche a quella scena di Witness – il Testimone, di Peter Weir – quando gli amish costruiscono un granaio, le donne cuciono una trapunta per le notti fredde, con una musica che sembra quella di un corale di Bach, ma al sintonizzatore, e la fatica viene smontata dalla limonata fresca.

Il giorno in cui Ned inventò il rugby a 7 è il 28 aprile 1883 e tutto avviene in quell’atmosfera da mondo perduto di una festa semplice per gente semplice e cordiale. Le cronache riportano che quel giorno, a Melrose, Borders scozzesi, a un tiro di sasso dalla “frontiera” con l’Inghilterra, il programma prevedeva una serie di prove: corse veloci, calci piazzati, drop, un concorso a eliminazione per stabilire chi fosse il miglior dribblatore.

È un costume scozzese che i momenti di festa siano ricchi di sfide: ai Giochi Celtici si lancia il pietrone, si scaglia il martello, si proietta verso il cielo il tronco. C’è persino una stranissima disciplina che prevede che un peso con maniglia debba scavalcare un’ asticella posta su riti da salto con l’asta.

Il giorno della genesi

Quel giorno, a Melrose, il solito buffet di cose preparate in casa (conserve, marmellate, torte, biscotti al burro), di cibi che solo gli scozzesi hanno l’ardire di portare alla bocca (haggis, budino di sugna, ossa di pecora da rosicchiare beati), tutto per raccogliere fondi per il Rugby Football Club della cittadina, nato nel 1877, sei anni dopo che a Edimburgo scozzesi e inglesi avevano dato vita al primo scontro internazionale della storia.

Oltre al Melrose ci sono sette altre squadre e c’è un pomeriggio a disposizione: alla fine di aprile, alle 7, a dir tanto, è buio. Ed è qui che scatta il colpo di genio di Ned che, da esperto macellaio, taglia con un virtuale colpo di mannaia una squadra e ne fa due, e fa a fettine il tempo: dagli 80’ classici escono fuori cinque partite da 15’ l’una.

Per usare termini ancora sconosciuti, inventò un format. Nella finale annunciata vanno Melrose e Gala: vincono i padroni di casa e ricevono la coppa offerta da un gruppo di signore amanti del gioco.

Il baffuto Haig portava il nome di un famoso scotch e di un generale che, poco più di trent’anni dopo, avrebbe portato al massacro le truppe britanniche sul fronte occidentale. La sua vita si svolse senza scosse tra Jedburgh, dov’era nato, e Melrose, dove visse: tra Jedburgh e Melrose, ci sono 20 chilometri.

Proprio a Melrose morì nel ’39, a ottant’anni. Un rustico inventore che chissà se si rese conto di quel che aveva partorito e che sarebbe approdato dall’altra parte del mondo, apprezzato da curiosi sudditi che abitavano a ventimila leghe sopra i mari. Il campo dove avvenne il miracolo della moltiplicazione delle partite si chiama Greenyards e ricorda un’antica canzone, Greensleeves.

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