Dopo la Shoah, in molti hanno contribuito a rifondare la relazione tra cristiani ed ebrei: conflittuale, ma in quasi 20 secoli mai interrotta e vitale per il cristianesimo è vitale. Per sviluppare questa relazione nessun pontefice ha fatto più di Joseph Ratzinger.
La tragica situazione del vicino oriente e le reazioni nel mondo, spesso di tenore antisemita, hanno riportato in primo piano la questione ebraica e i drammi che hanno segnato i rapporti non solo tra ebrei e musulmani, ma anche tra le società di antica tradizione cristiana e le minoranze ebraiche.
Soprattutto dopo la Shoah, da entrambe le parti molti hanno però contribuito a rifondare la relazione tra cristiani ed ebrei: conflittuale, ma in quasi 20 secoli mai interrotta e che innanzi tutto per il cristianesimo è vitale.
Per sviluppare questa relazione nessun pontefice ha fatto più di Joseph Ratzinger, principalmente in quanto teologo, ma poi come capo dell’antico Sant’Uffizio e infine come successore dei papi del concilio.
E se i suoi predecessori sono stati europei che al tempo dei totalitarismi e della Seconda guerra mondiale si erano trovati di fronte al male senza limiti della persecuzione e dello sterminio degli ebrei, Ratzinger è stato il primo pontefice proveniente dalla Germania dopo quasi un millennio e, soprattutto, dopo la Shoah.
Le esperienze giovanili
Oltre le decisioni e i gesti del cardinale Ratzinger e di Benedetto XVI – coerenti con le decisioni del Vaticano II e davvero importanti – resta appunto il contributo del teologo, che sino alla fine della sua vita molto ha riflettuto sul rapporto profondo tra ebraismo e cristianesimo. E che molto con i suoi testi, radicati nella Bibbia e nella tradizione cristiana, lo ha fatto progredire, guardando al futuro.
Fondamentali sono state le esperienze giovanili, che il futuro papa ha ricostruito in un racconto dei suoi primi cinquant’anni (La mia vita, San Paolo) pubblicato nel 1977, l’anno della svolta, quando Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco e Frisinga e lo creò cardinale.
Dalla narrazione emerge con chiarezza la refrattarietà del giovanissimo Joseph – respirata in famiglia e nel tradizionale cattolicesimo bavarese radicato nelle campagne – alle imposizioni del nazismo antisemita, avvertite come totalmente estranee.
Uscito dalla guerra dopo il servizio militare, mal sopportato, e la prigionia in un campo allestito presso Ulm dagli americani, Ratzinger riprende gli studi, dal 1947 in una Monaco devastata dai bombardamenti. Nella facoltà di teologia, oltre Friedrich Wilhelm Maier che teneva lezioni seguitissime sul Nuovo Testamento, vi era Friedrich Stummer, docente di Antico Testamento, «silenzioso e riservato, la cui forza stava nel suo lavoro storico e filologico, mentre solo con molta cautela arrivava ad accennare a delle linee teologiche», con uno stile che lo studente ventenne apprezza molto.
«In questo modo l’Antico Testamento è divenuto importante per me», ha scritto Ratzinger, «e ho capito sempre di più che il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione, che si è appropriata delle sacre scritture degli ebrei, quasi si trattasse di una sorta di preliminare tutto sommato secondario. Il Nuovo Testamento non è altro che un’interpretazione a partire dalla storia di Gesù di “legge, profeti e scritti”, che al tempo di Gesù non erano ancora giunti alla loro forma matura di canone definitivo, ma erano ancora aperti e si presentavano quindi ai discepoli come testimonianza a favore di Gesù stesso, come sacre Scritture che rivelavano il suo mistero».
Il giovane studente capisce allora che «il giudaismo (che in senso stretto comincia con la conclusione del processo di formazione del canone scritturistico e, dunque, nel primo secolo dopo Cristo) e la fede cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far proprie le sacre scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret. La scrittura, che noi oggi chiamiamo Antico Testamento, è di per sé aperta ad ambedue le strade». Ma «solo dopo la seconda guerra mondiale abbiamo comunque cominciato davvero a capire che anche l’interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel tempo “dopo Cristo”».
Il rapporto con l’ebraismo
Quarant’anni dopo l’autobiografia Ratzinger torna sul valore dell’ebraismo e sul dialogo tra ebrei e cristiani. Ormai papa emerito, nel 2017 scrive un lungo saggio intitolato Grazia e chiamata senza pentimento, che l’anno successivo esce sulla rivista teologica internazionale Communio ed è incluso nel suo ultimo libro, Che cos’è il cristianesimo (Mondadori), postumo.
Il titolo del saggio è un’espressione di san Paolo che nella lettera ai Romani – il suo testo più importante – dedica tre fondamentali e celebri capitoli (9-11) alla chiamata, al ruolo e al destino di Israele. Un destino di salvezza perché «senza pentimento sono i doni e la chiamata di Dio» (11,29), e dunque irrevocabili, secondo la traduzione italiana più diffusa.
Nel testo Benedetto XVI ribadisce che dopo Auschwitz «la chiesa deve ripensare la natura del giudaismo». E conferma il convincimento maturato decenni prima: il giudaismo e il cristianesimo sono «due risposte» alla catastrofe del 70, quando le legioni di Tito distrussero il tempio di Gerusalemme e iniziò un «nuovo, radicale esilio di Israele»: due «vie» nei primi tempi non distinte con chiarezza e che «si sono sviluppate continuamente in disputa».
Nonostante differenze e interpretazioni diverse, ebrei e cristiani hanno in comune una Scrittura sacra, l’Antico Testamento, tanto che a metà del II secolo la chiesa di Roma respinge come eretico il tentativo di Marcione di esasperare queste differenze: eliminando le Scritture ebraiche, modificando quelle cristiane e inventando «due divinità diverse, contrapposte. Il Dio dell’Antico Testamento sarebbe un Dio di una giustizia senza grazia, al contrario il Dio di Gesù Cristo sarebbe un Dio della misericordia e dell’amore». Anche se la tentazione marcionita – scrive Ratzinger – «si ripresenta in determinate situazioni della storia della chiesa».
Il «conflitto delle interpretazioni» ruota essenzialmente su Gesù: per i giudei non è il messia perché non ha portato la pace nel mondo, per i cristiani la distruzione del tempio e la dispersione di Israele impongono una nuova interpretazione delle scritture, un nuovo culto – Cristo dichiara che il suo corpo è il nuovo tempio – e una nuova forma dell’alleanza stabilita da Dio sul Sinai. Ratzinger, sulla scia della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano II, rifiuta però con decisione la «teoria della sostituzione» che vorrebbe l’antico Israele sostituito dalla chiesa cristiana.
Ma l’alleanza di Dio con Israele non è mai stata revocata, e Benedetto XVI si oppone alla teoria della sostituzione contestandola su singoli punti – il culto, la morale, la concezione del messia e della storia, la promessa della terra – con l’appoggio delle stesse scritture ebraiche. Così, mentre il superamento dei sacrifici nel tempio è già nelle critiche dei profeti ebraici, Ratzinger non vede alcuna differenza nell’insegnamento morale e sottolinea il realismo della speranza messianica.
La venuta di Cristo e la distruzione del tempio non hanno ancora portato la pace ma già hanno inaugurato un «tempo dei pagani», quel tempo della chiesa definito nel medioevo adventus medius in attesa del ritorno del Signore alla fine dei tempi: un tempo che non significa «essere approdati in paradiso, ma corrisponde per il mondo intero ai quarant’anni dell’esodo di Israele». È cioè il tempo della libertà, «in cui il male ha ancora potere», ma anche «della pazienza di Dio che a noi sembra esageratamente eccessiva, un tempo della vittoria ma anche delle sconfitte dell’amore e della verità».
La questione del sionismo
Ratzinger non schiva la questione, cruciale e di drammatica attualità, della terra di Israele, posta dal sionismo del XIX secolo e dalla nascita dello stato d’Israele, riconosciuto dalla Santa sede nel 1993. Certo la sua origine «non può essere fatta derivare direttamente dalla sacra scrittura, e tuttavia in un senso più lato può essere espressione della fedeltà di Dio al popolo di Israele».
Il saggio di Benedetto XVI è stato criticato da teologi cattolici tedeschi che lo hanno definito un passo indietro deludente nel dialogo con gli ebrei. In difesa del papa emerito è però sceso in campo Arie Folger, rabbino capo di Vienna, pur distinguendosi da Ratzinger su punti sostanziali. Il papa e il rabbino si sono poi scambiati lettere e incontrati. Concordando infine su un punto: anche se non si arriverà «all’unità delle due interpretazioni», perché questa «è riservata a Dio alla fine della storia», il dialogo tra ebrei e cristiani la può avvicinare.
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