La stanza si affaccia sullo slargo di fianco alla chiesa della Madonna del Monte. E, lì dentro, tutto è come sempre è stato. Il suo letto con la coperta rivoltata con cura, il comò, la specchiera, l’armadio, le due poltroncine in similpelle verde smeraldo quasi incastrate una all’altra sotto la finestra. C’è anche una giacca grigia e lisa su un vecchio appendiabiti, nell’angolo più lontano dalla luce.
Ogni cosa è al suo posto, come se lui dovesse tornare da un momento all’altro. Per capire veramente dove siamo bisogna però scendere due rampe di scale e ventotto gradini, bisogna partire dal sotto di questa casa di più di un secolo fa, dal piano terra di via Regina Margherita numero 37. Qui c’era la bottega dello zio Salvatore dove, poco più che bambino, faceva l’apprendista sarto. E, sempre qui, ha scoperto I promessi sposi e I miserabili prima di diventare uno dei grandi della letteratura italiana ed europea del ’900.
Il paese di Leonardo Sciascia, Racalmuto, è circondato da quelle che noi siciliani chiamiamo pirrere, miniere, pozzi che arrivavano sino a un inferno dal quale risaliva lo zolfo che portava tanta ricchezza ai possidenti e sfamava un popolo di sventurati e che poi a tutti loro, possidenti e sventurati, rilasciava irritanti polveri che il più delle volte generavano follia e di tanto in tanto anche genio.
In una strada che precipita verso il corso principale c’è una casa a due piani incollata a un palazzo nobiliare che apparteneva alla famiglia Mantia, proprietari di zolfare che avevano come amministratore proprio il bisnonno di Leonardo Sciascia. Non si sa come e non si sa esattamente perché ma i Sciascia costruirono la loro casa lì, in via Regina Margherita numero 37. E lì, nel 1923 - aveva appena due anni - come capitava allora in molte famiglie siciliane Leonardo fu “sottratto“ al padre e alla madre e andò ad abitare con il nonno rimasto presto vedovo e con le tre zie.
Una era Angela. L’altra Marietta, la maestra. E poi Giuseppina, che nonostante fosse la più grande d’età ma esile e di bassa statura veniva da tutti chiamata “la nica”, la piccola. Su una parete di quella che è "Casa Sciascia” c’è una frase, il suo ricordo di quei primi anni di vita: «Sono cresciuto in un ambiente femminile...Le case erano allora luoghi privilegiati per l’osservazione delle cose e delle persone, io vi restavo in mezzo alle donne, ascoltavo senza aprir bocca, e finivo per sapere tutto ciò che avveniva in paese, dal primo all’ultimo pettegolezzo, dalla minima maldicenza all’ultima diceria...ed è così che sono diventato scrittore».
A cento anni dalla sua nascita (8 gennaio 1921) Casa Sciascia non è un museo e non è monumento ma qualcosa di più in questa Regalpetra, luogo che esiste e non esiste, che "confina nell’immaginazione” con Racalmuto, di fantastica ambientazione ma con una narrazione di fatti realmente accaduti, dove paradossi e ingiustizie s’inseguono come in ogni paese di una Sicilia che cambia e non cambia mai. «Casa Sciascia è stata ed è ancora la sua officina segreta, realizzata con l’affetto degli amici che l’hanno organizzata come se fosse ancora qui», racconta Gaetano Savatteri, scrittore, anche lui di Racalmuto, che con quegli amici ha voluto fortemente questo luogo «che non è in mano a Comune o a Regione..non ha strutture burocratiche..» e che anche in pieno lockdown è rimasto vivo.
Ci sono passati in tanti, come in pellegrinaggio. Il ministro Giuseppe Provenzano e l’attore Luigi Lo Cascio, l’ex capo della Direzione investigativa antimafia Giuseppe Governale, Giuseppina Torregrossa, Stefania Auci, Nadia Terranova, Roberto Alajmo, l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli. Nell’ultima estate è arrivato - ci dicono che era molto emozionato - anche l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il fedele compagno di Berlusconi condannato per mafia.
Disabitato per lungo tempo, sul vecchio edificio c’era un cartello malamente appiccicato: "Vendesi”. Il Comune non ce la faceva a comprarlo e ha chiesto soldi all’ex Provincia, l’ex Provincia ha chiesto soldi alla Regione, alla fine - per 50 mila euro, nel febbraio del 2019 - l’ha acquistato un privato. Si chiama Pippo Di Falco ed è uno quegli straordinari personaggi che si possono trovare in questa parte di isola arsa d’acqua e distante dal mare, consigliere comunale del vecchio Partito comunista per oltre trent’anni, raffinato bibliofilo, uno sconfinato amore per Racalmuto insieme ai suoi compaesani Salvatore Picone, Ignazio Marchese, Gigi Restivo, Felice Cavallaro. Gli si stringeva il cuore a vederlo deserto, con la mobilia impolverata, morto. Così è nata "Casa Sciascia”.
In ogni buco e in ogni cassetto di via Regina Margherita 37 le stanze si sono riempite poco a poco di almeno cinquemila degli ottantamila volumi della biblioteca di Pippo Di Falco. Un tesoro. Solo il piano terra - quella sartoria che di sera si trasformava in covo di caccia, dove di lepri e di pernici da impallinare parlavano sempre il padre Pasquale, lo zio Salvatore e il fratello Giuseppe - è ancora da risistemare. Il primo piano, dove vivevano le zie, è fedelmente ricostruito come allora. Il salotto e poi un’altra stanza dove oggi ci sono tutti i libri degli autori che Leonardo Sciascia ha sempre amato. Borges, Stendhal, De Roberto, Manzoni, Vitaliano Brancati, Giuseppe Antonio Borgese, Quasimodo, Pasolini. E in questo primo piano che Sciascia ha iniziato a diventare Sciascia. Con i libri della zia Marietta, la maestra.
Un altro suo ricordo: «Dal momento in cui appresi a leggere credo di aver letto, tra gli otto e i quattordici anni, tutta la carta stampata in cui riuscivo a mettere le mani. Non era molta: non più di trecento libri in tutto, nel giro della mia parentela». Fra tutti quei libri non ce n’era uno solo di un siciliano. Pirandello lo scoprirà solo grazie allo zio Giuseppe, che per qualche tempo è gestore del teatro comunale e una sera lo invita a vedere il film di Marcel L’Herbier, quello con Ivan Mosijoukine tratto dal Il fu Mattia Pascal. Il teatro di Racalmuto poi è anche cinematografo, aperto due volte la settimana, il sabato e la domenica. Di quei pomeriggi ne scriverà ne Gli zii di Sicilia: «Me ne stavo sempre in un palco e a volte addirittura in quello centrale, che era detto del podestà...».
Tanti anni dopo, quando nel 1988 assisterà privatamente insieme a Vincenzo Consolo e a un ristrettissimo gruppo di amici alla proiezione del capolavoro di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso, qualcuno coglie la sua commozione e qualcun altro giura che l’ha visto piangere. Un dolce e tormentato ritorno al passato. Il paese, il “suo” cinema, lui bambino, lo zio Giuseppe. Un’atmosfera molto siciliana. In via Regina Margherita 37 Leonardo Sciascia ci abita dal 1923 al 1935. La prima volta che uscirà da Racalmuto ha cinque anni.
Un interminabile viaggio in treno fino a Palermo. Ce lo porta Rosalia Fantauzzo, la nonna materna. Quando ha quattordici anni se ne va a studiare a Caltanissetta, all’istituto magistrale dove insegna Vitaliano Brancati. Un giovane professore, Giuseppe Granata, gli fa conoscere l’illuminismo: Voltaire, Montesquieu, Cesare Beccaria, Pietro Verri. Per il giovane Sciascia è la svolta della vita. Racalmuto è in provincia di Agrigento, ma ha sempre “guardato” la vicinissima città di Caltanissetta.
Per le pirrere e per tanto altro. Allora la chiamavano “la piccola Atene”, piazza Garibaldi e la fontana dello scultore Michele Tripisciano, il bar Romano con i suoi “pezzi duri” di eccelsa gelateria - gli spongati e gli spumoni; le granite al limone; la fetta brasiliana, naturalmente al caffè; la fetta gianduia, naturalmente al cioccolato; - e la statua di re Umberto proprio difronte alla libreria dell’editore Salvatore Sciascia, omonimo e non imparentato con la sua famiglia. Scaffali ricolmi di testi nel primo locale, alla fine di un cunicolo il pertugio dove si riunivano intellettuali provenienti da ogni angolo dell’isola. Una cripta.
Leonardo Sciascia si lascia sedurre dalla “piccola Atene” Sui banchi di scuola è conquistato dalla letteratura e dalle materie umanistiche. La pagella dell’anno scolastico 1936/1937: condotta ottima, 8 in italiano scritto, 4 in matematica, 4 in musica, 4 in canto. E’ "avanguardista” del Fascio ma entra in contatto con una cellula clandestina di comunisti. Uno è Emanuele Macaluso, un altro è Calogero Boccadutri, c’è Gino Cortese, c’è anche Pompeo Colajanni che poi sarà il famoso "comandante Barbato” della Brigata Garibaldi, le formazioni partigiane del Piemonte. Sciascia tornerà in quella città, Caltanissetta, anche in seguito. Dopo la guerra. Ma alla fine delle superiori rientra nel suo paese. E va ancora ad abitare nella sua casa di sempre, in via Regina Margherita 37. Prima, quando si sposa con Maria Andronico, al piano terra dove c’era la sartoria dello zio Salvatore. Poi, quando nascono le figlie Laura ed Anna, al secondo piano della palazzina. Proprio sopra le tre zie.
Il matrimonio, il 19 luglio del ’44, lo vuole però celebrare a Caltanissetta, nella chiesa della Provvidenza. Ha due testimoni. Uno è il partigiano Ugo Cordova, l’altro è Stefano Vilardo, scrittore di Delia, suo compagno di banco al Magistrale e poi compagno per tutta una vita. Come regalo di nozze a Leonardo e a Maria, Vilardo dona un coniglio selvatico e due piccioni. Probabilmente preparati per un pranzo in una piccola soffitta adibita a cucinino, sopra il loro appartamento. In viale Regina Margherita 37, là sopra c’è ancora una porticina che si apre a fatica, una scala buia e di legno malfermo che si arrampica.
A Racalmuto tutto scorre come sempre nell’esistenza della famiglia Sciascia. Regalpetra lontano da tutto e al centro di tutto, Regalpetra metafora della Sicilia e dell’Italia intera. Dal 1941 al 1948 Leonardo Sciascia - dichiarato "rivedibile” per il suo fisico esile non svolgerà il servizio militare negli anni della seconda guerra mondiale - viene assunto "all’ammasso del grano”. Dopo l’inferno delle miniere scopre il poverissimo mondo delle campagne siciliane: «Prima di fare l’insegnante sono stato impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto. Era un mestiere che permetteva la conoscenza del mondo contadino. Momenti tristi, in cui mancava il pane, e i contadini erano particolarmente vessati perché consegnassero il grano. Lì ho avuto, si può dire, il primo impatto con la giustizia».
La giustizia, il "tema” dello Sciascia romanziere e dello Sciascia saggista, dell’opinionista, dell’intellettuale, del siciliano Sciascia. L’ingiustizia della giustizia, il potere, le collusioni, la corruzione. Come impiegato al Consorzio agrario è presto testimone di un processo, imputati un contadino e l’arciprete. Il primo è accusato di avere trattenuto per sé tre quintali di grano che, per le leggi sul razionamento in tempo di guerra, avrebbe dovuto portarli all’ammasso. Il secondo, di quintali di grano ne aveva presi quindici.
Il contadino fu condannato a due anni di reclusione, l’arciprete assolto “perché il grano non consegnato era destinato ai bisognosi”. Scriverà molto dopo, nel 1979, nelle pagine di Nero su Nero sempre più angosciato: «Dice un vecchio avvocato: “Una volta, su cento casi che mi capitavano, novantotto erano di colpevoli e due di innocenti. Ora è il contrario: novantotto innocenti e due colpevoli. Spero che la sua sia un’esperienza eccezionale, ma spesso mi assale il sospetto che la macchina della giustizia si muova a vuoto o, peggio, arrotando chi, per distrazione propria o per spinta altrui, si trova a sfiorarla».
Dopo il Consorzio Agrario, la scuola: Sciascia fa lezione in una quarta elementare. Sciascia è il maestro di Regalpetra, maestro di malavoglia. Ha ventotto anni, sale in cattedra nello stesso istituto dove è stato alunno per la prima volta nel 1926, aule fredde e umide dentro il cortile dell’ex convento delle Clarisse, a un passo da via Regina Margherita 37.
Tutta un’esistenza intorno a una casa, uno slargo, un balcone, quattro stanze. E, dopo quasi ottant’anni, quelle quattro stanze sono esattamente come lo erano nel 1944, l’anno delle sue nozze. Il soggiorno con il grande tavolo al centro, la stanzetta un po’ angusta delle figlie, la camera da letto e il piccolo studio dove, dalla finestra, si vede in lontananza quella che era la vecchia centrale elettrica e che oggi è la sede della Fondazione a lui dedicata. Sotto questa finestra, per quello che se ne sa, ha iniziato la sua prima opera: Il signor T protegge il paese. Nel dicembre del 1947, la propone a Elio Vittorini per la pubblicazione su Il Politecnico.
Chi è il signor T? E’ il capomafia di Racalmuto. Sulla scrivania dello studio c’è ancora il pesante posacenere di cristallo per i mozziconi delle Chesterfield che fumava una dopo l’altra, su una mensola il vecchio ventilatore Marelli, sopra il comodino una radio a transistor Philips. E, in questo secondo piano che era il suo mondo sul mondo, ci sono oggi tutte le prime edizioni dei suoi libri, tutti i testi che parlano di lui, le opere di Vincenzo Consolo e di Gesualdo Bufalino, la corrispondenza con Pasolini, i volumi della Sellerio, più di millecinquecento articoli comparsi su riviste nazionali e periodici locali, le note scritte di suo pugno su convegni e seminari. Una montagna di carta. Nascosta in un armadio nella stanzetta che fu delle figlie c’è anche la collezione del foglio “Di Guardia”, quindicinale della federazione provinciale dei fasci di Caltanissetta.
Un inedito Leonardo Sciascia, giocoliere con le parole oltre i confini consentiti del Ventennio: discorsi ufficiali di Stalin messi in bocca a Mussolini. L’armadio della stanzetta delle figlie è come una cassaforte nascosta che contiene solo pietre preziose. Come le quattro edizioni di Questa mafia firmato da Renato Candida, l’ufficiale dei carabinieri al quale Sciascia nel 1961 si è ispirato per descrivere la figura del capitano Bellodi Nel giorno della civetta. Il libro che ha fatto conoscere la mafia agli italiani.
Sotto le ante dell’armadio c’è un cassettone, un altro pozzo senza fondo dove Salvatore Picone ha ritrovato un “pezzo” del 1962 per l’"Apollo Buongustaio”, l’almanacco gastronomico del poeta Mario Dell’Arco. Titolo: "Sembra facile fare un’arancina”. Non è solo una ricetta: («..l’arancina vuole olio d’oliva: di quello coi suoi buoni gradi di acidità, col vivo sapore dell’oliva, di brillante e denso colore..perché l’arancina deve avere croccante crosta, appunto dell’arancia che comincia ad appassire...») ma anche un pregevole e - consentitemi questo personale piccolo azzardo - necessario contributo all’interminabile diatriba linguistica, fra palermitani e catanesi, sulla declinazione al maschile o al femminile di uno dei pezzi tipici della rosticceria siciliana.
Leonardo Sciascia in questa casa di Racalmuto ci starà dal 1944 sino alla fine del 1957. Con Caltanissetta però sempre nel cuore. Con un articolo su Salvatore Quasimodo inizia a collaborare per il periodico Vita siciliana, che si stampa in quella città. Poi prende la direzione della rivista Galleria e chiede un testo al poeta e librario bolognese Roberto Roversi: «Ma lei forse non conosce la rivista: una modesta rassegna letteraria che si avvale però di ottimi collaboratori, e tra i più attivi sono Pasolini, Petrocchi, La Cava, Bartolini, Tobino. A pubblicarla in Sicilia, lei potrà capire quale lavoro ci costi».
Racalmuto e Caltanissetta, Caltanissetta e Racalmuto, una cinquantina di chilometri, la vecchia provinciale tortuosa, San Cataldo, Serradifalco, i pozzi di zolfo, i giacimenti bianchi di salgemma, le prime vigne a tettoia che coprono le colline. Poi il trasferimento nella capitale della Sicilia: «A Palermo sono venuto nel ‘67. Non riesco però a sentirmi palermitano, né mai ci riuscirò. C’è qualcosa, nel tessuto umano di questa città, che respinge il “regnicolo” che io sono (Regnicoli sono chiamati dai palermitani, con disprezzo, i siciliani nati in altri luoghi dell’isola). Ci sto come en tourist, certi giorni me ne vado in giro a scoprirla e a riscoprirla come proprio un turista, ma un turista regnicolo che arriva alla capitale. Splendida città, nella sua parte antica».
L’anima dello scrittore è rimasta qui, nella Sicilia più nascosta. Dove le voci del paese sono entrate nei suoi libri. Come quella di Mastro Pietro, inesorabilmente finita in Occhio di Capra per una frase gridata in tempo di guerra e raccolta dal balcone di casa Sciascia. Il primo lancio di ordigni dal cielo sulla Sicilia fu dei francesi. Ma la grande paura poi arrivò sempre dall’alto con gli aerei "a due code”, così i siciliani chiamavano i Lightning americani, cacciabombardieri a doppia fusoliera, bimotori armati con quattro mitragliere e un cannoncino. Sganciavano di giorno, sganciavano di notte. Sganciavano sempre. In una mattina del giugno ’40 le donne di casa Sciascia prima videro il cieco Mastro Pietro vicino alla fontana, poi lo sentirono urlare: «Cu tuttu ca sugnu uorbu, la viu niura». Con tutto che sono cieco, la vedo nera.
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