Porta il nome del sindacalista giamaicano Garvey perché così volle suo padre, Lilian, calciatore, scrittore, attivista anti-razzismo. Il giovane francese nato a Parma è stato il primo europeo a inginocchiarsi in campo (maggio 2020). È un simbolo ma nei giorni delle offese a Mike Maignan, il calcio italiano lo ha ignorato. Domenica 4 la sfida scudetto alla Juve di papà.
Nome, corpo e gesti, Marcus Thuram è l’alieno di seconda generazione, perché prima lo è stato suo padre Lilian che, uscito dal campo, più di Jorge Valdano, si è messo a pensare ed opporsi, pensare e scrivere, pensare e far pensare. Il resto è venuto di conseguenza o quasi. Nella settimana di Inter-Juventus si proietta, con prepotenza, il caso Mike Maignan perché a Udine non smettono di sbagliare, un passo falso dietro l’altro, e tutti nel solco del razzismo. Ed è curioso, avere il primo calciatore ad essersi inginocchiato in Europa, dopo il secondo dei suoi due gol segnati all'Union Berlin nel 4-1, senza sfruttarlo adeguatamente.
In ginocchio
Era nel giugno 2020, e Marcus Thuram, prima che arrivasse all’Inter giocava in Bundesliga nel Borussia Mönchengladbach e il gesto di Colin Kaepernick, quarterback nel football americano – inginocchiarsi a testa bassa durante l’inno americano mentre gli altri stanno in piedi – era diventato nel giro di quattro anni il modo per ricordare l’orrenda morte per soffocamento di George Floyd, durante un controllo della polizia di Minneapolis nel 2020.
Thuram segnò, si inginocchiò e fece entrare la questione nel mondo del calcio, sempre un po’ distratto, sempre un po’ voltato dall’altra parte, sempre a disposizione dei mister, delle squadre, delle curve e quasi mai delle cause, sempre pronto a fare da testimonial ma mai ad impegnarsi veramente. Un ossimoro continuo. Ma Marcus è cresciuto con dei valori differenti che è riuscito a coniugare al gioco del calcio. Jason Pendant (amico ed ex compagno nel Sochaux) disse di Thuram «gioca per segnare e per fare la differenza». Ha diversificato. Non solo segna in modo differente, e tutti hanno ancora negli occhi il suo gol nel derby col Milan, ma pensa e agisce in modo differente.
E per capirlo, bisogna ricordare quello che disse un anno dopo agli Europei Giorgio Chiellini, capitano della nazionale italiana, «Non c’è stata nessuna richiesta, quando capiterà e ci sarà la richiesta dell’altra squadra, ci inginocchieremo per sentimento di solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra. Ma cercheremo sicuramente di combattere il razzismo in altro modo, con delle iniziative insieme alla Federazione nei prossimi mesi». Si giocava Italia-Austria a Wembley. L’altro modo lo stiamo ancora aspettando.
Il caso Maignan
Intanto a Udine, in uno stadio, il Bluenergy Arena, con una acustica da teatro, un ragazzo, Mike Maignan, portiere del Milan, viene offeso, mentre intorno si minimizzava. Si sospende la partita, l’allenatore dell’Udinese, Gabriele Cioffi, prima dice di non aver sentito niente, e poi a fine partita non commenta e non si schiera. Udine si dice multiculturale e pronta all’accoglienza, ma poi nega la cittadinanza onoraria a Maignan, la giustizia sportiva prima squalifica il campo e poi solo la curva, in un giochino di minimizzazione che offende e non combatte.
Ma per fortuna Lilian Thuram, ha previsto tutto. Nei suoi tre libri (“Le mie stelle nere”, “Per l’uguaglianza” e “Il pensiero bianco” tutti editi da add editore) e con la sua fondazione che educa contro il razzismo, anzi che aiuta i bambini a prendere coscienza rispetto a colori e identità, con moltissima ironia, «non si nasce bianchi, lo si diventa», abbraccia tutti, persino la riottosità di Cioffi e Chiellini. Perché il razzismo è una maniera di vedere le cose. Tanto che Thuram lo lega a tutte le altre discriminazioni, violando altri tabù del calcio, come l’omosessualità.
La sua partenza è l’opposizione alla vittimizzazione. E la fa discendere dal panafricanista Marcus Mosiah Garvey, che stacca i neri dalla schiavitù: «Che siate neri del Brasile, dei Caraibi o dell’America del Nord, voi avete antenati africani». E poi le sue idee – che incarnavano in nuce gli ideali del XXI secolo – sono confluite in Martin Luther King, nel Black Power, nei discorsi di Malcolm X, Cheikh AntaDiop, Nelson Mandela e Bob Marley. «Ho chiamato il mio primogenito Marcus in onore del leader giamaicano Garvey e il mio secondo Khephren, perché i faraoni avevano la pelle scura».
In pratica Thuram ha regalato al calcio due possibilità – Marcus all’Inter e Khephren al Nizza – due calciatori molto più coscienti di lui alla loro età, ma il calcio fa finta di non vederli. I due sono la perfetta espressione sorianesca di pensare con i piedi. Giocano e riflettono, sono protagonisti in campo e fuori, due atleti non banalmente votati a una causa, ma perfettamente capaci di prolungare nel gesto il pensiero e di portarsi nel pensiero la forza del gesto.
Stanno diventando simboli, come il loro padre, e i simboli servono tantissimo, anche se in questi anni si cerca in ogni modo di sminuire tutte le donne e gli uomini che prendono parte e si interessano. E più i Thuram segnano, più quello che dicono prende peso, più giocano bene, si comportano bene, maggiore è l’impatto delle loro opinioni, in uno sport sordo e muto, dai dirigenti agli allenatori. Tanto che nei giorni delle offese a Maignan nessuno ha pensato di far parlare Marcus Thuram.
La tecnica
Un calciatore straripante, incontenibile, un protagonista dell’Inter di quest’anno, che Simone Inzaghi ha saputo subito valorizzare. E Marcus non è protagonista solo per la sua presenza (è alto 1,92 per 90 kg) ma per come la usa: sfruttando il suo corpaccione in modo celebrale, incarnando la fisicità con intelligenza, facendo tutto quello che è mancato a Mario Balotelli.
È vero se sei figlio di Lilian Thuram, campione del mondo con la Francia nel 1998, quella che sembrava una proiezione dell’Internazionale socialista, se ti chiami come Mosiah Garvey che diceva «Se non hai fiducia in te stesso, nella corsa della vita sarai doppiamente sconfitto. Sei hai fede hai vinto ancora prima di aver cominciato», se cresci con i valori della Guadalupa, viene tutto più semplice, e invece no, proprio perché Marcus arriva in un calcio più egoista che in passato, proprio perché agisce in un mondo sportivo dove soldi e statistiche contano più di idee e gesti, e soprattutto perché è figlio di Lilian, un padre dolce ma non semplice.
E adesso gli tocca anche giocare contro la squadra che ha consacrato suo padre un campione, la Juventus – anche se quella più bella era il Parma, dove poi è nato Marcus. Quella di Thuram jr. è una sfida generazionale, perché può spingere l’Inter verso lo scudetto, e annullare l’assalto al titolo che Max Allegri e la sua giovane squadra stanno portando al campionato, dopo stagioni non esaltanti. Marcus può dare una spallata alla squadra di suo padre. Intanto, ha smesso di essere un dribblomaniaco diventando un calciatore che ondeggia tra gli avversari con generosità – citofonare Lautaro Martínez e Kylian Mbappé, è di Thuram jr il passaggio per il due a due nella finale mondiale 2022 – e in pochi mesi si è preso il ruolo di co-protagonista del campionato italiano.
Tempo di gioco, corpo, idee. Un attaccante orientato, che sa dove andare e ci va, che sa cosa fare e lo fa. Un attaccante pe(n)sante che non si nasconde. Un riferimento in ogni parte del campo, persino fuori.
© Riproduzione riservata