Il film è stato considerato la celebrazione della femminilità affrancata, in realtà l’unica macchina da guerra della protagonista Bella è il corpo sessualizzato. Il suo viaggio avviene tutto all’insegna di un tutorato maschile, nel cedimento alla rassicurazione di un regista che in passato aveva fatto l’opposto: inquietare
Spoiler alert: questo articolo contiene dettagli sulla trama e sul senso del film
Se fino a qualche giorno fa ci avessero chiesto l’esempio di un autore capace di combinare il pop con un messaggio politico dirompente, avremmo risposto senza esitazione: Yorgos Lanthimos. Da qualche giorno, dopo la visione di Poor Things, esiteremmo un poco.
Tra tutti i suoi lavori, avremmo richiamato The Lobster, che vale almeno tre decenni di lavori accademici sulla famiglia nucleare sotto il controllo del patriarcato. Mediante simbolismi di non semplice decrittazione, ma orchestrati con una maestria tale da restituire il senso pieno di un soffocamento, The Lobster denuncia il regime di eterosessualità obbligatoria unicamente volta al fine supremo della riproduzione sociale. E verrebbe la voglia di intonare le lodi di questo capolavoro di critica queer se non toccasse parlare di Poor Things. Beninteso: sotto il profilo della qualità cinematografica ed estetica, il film è più che riuscito – né sul tema chi scrive avrebbe competenze tecniche per formulare giudizi di una qualche attendibilità. Piuttosto, è sulla politica di cui l’opera è manifesto che vogliamo esprimere alcune perplessità.
Poor Things segue le tracce di una giovane donna, Bella Baxter, riportata in vita dal suo tutore, lo scienziato e novello Victor Frankenstein Godwin Baxter, capace di tecniche chirurgiche prossime al prodigio. La storia si sviluppa in una temporalità alternativa alla nostra, dalle giocose tinte gotico-vittoriane, che trasmette l’idea di una moderna rivisitazione del Frankenstein di Mary Shelley. Godwin, chiamato da Bella “God”, porta sul viso e sul corpo le vistose cicatrici risalenti alla sua complicata infanzia, soggetto com’era al folle ardimento scientifico del padre. Bella, pur con sembianze di donna adulta, manifesta i comportamenti di una bambina. Lo scienziato recluta allora un suo promettente allievo, Max McCandles, affinché registri con scrupolo tutti i dettagli dei progressi di Bella, che acquisisce rapidamente notevoli competenze linguistiche e cognitive.
Secondo una vulgata che anticipa la più che probabile acclamazione agli Oscar (nella categoria dei film pensati anzitutto per vincere Oscar), Poor Things celebrerebbe una femminilità libera e affrancata, assieme a un’infinita possibilità di ridisegnare i corpi in grado di erodere i confini tra il normale e il mostruoso. Questo segnerebbe un rovesciamento delle gerarchie sessuali e di genere, per cui il desiderio maschile si ritroverebbe in perenne scacco rispetto a un desiderio femminile finalmente capace di scriversi da sé e solo da sé.
Ecco: tutto questo, ahinoi, non c’è. C’è senz’altro un sapido e fastoso adattamento del romanzo di Alasdair Gray, che in più d’una occasione suscita un divertimento non banale. C’è altresì il tentativo di creare un legame affettivo con figure mostruose – allegoria dell’altro-da-noi – che a tutta prima suscitano ripulsa. Ma a nostro avviso, le perdite nette sono troppo alte, specie nella misura in cui la necessità di divertire un pubblico sempre più ampio drena la carica sediziosa che da Dogtooth in poi ha caratterizzato le opere del regista greco. E se è vero che sarebbe necessario un intero saggio per spiegare nel dettaglio tutte le ragioni di questa nostra stentorea protesta, vorremmo quantomeno suggerirne due, che toccano i temi portanti della pellicola.
Le ragioni del no
La protagonista, Bella Baxter, riscatta sé stessa nel campo esclusivo della sessualità. Si rilascia a un desiderio acefalo, che fa da indomabile propulsore di una libertà riottosa a ogni vincolo. In ciò, per certo, s’intravvede un tratto autenticamente femminista: il desiderio fa da veicolo di una rivoluzione che spezza qualsiasi tentativo di cattura nei più tradizionali dispositivi di asservimento della donna, come il rapporto con il padre, improntato alla più devota obbedienza, e la promessa di fedeltà al futuro sposo – obbedienza e promessa a loro volta suggellate con tanto di notarile contratto.
Bella fa strame di tutto questo. Ma la forza sovversiva del gesto femminista viene presto riassorbita dalla sua tendenza unilaterale a farsi corpo che gode e fa godere. La sua unica macchina da guerra è il corpo sessualizzato: il bel corpo, il corpo della donna bianca dalla pelle lustra, figura snella e capace via via di acquisire un passo slanciato e disinvolto. È solo attraverso questo suo bel corpo che la protagonista trova la libertà. E così, pur provando un sovrano piacere nelle dozzine di rapporti sessuali che accuratamente esamina e classifica, Bella si ritrova di fatto intrappolata nel più tradizionale degli immaginari maschili, realizzando così quello che sul Guardian Samira Ahmed ha definito “la tipica fantasia dell’uomo eterosessuale di mezza età sulla ninfomane”.
Ma non staremmo qui ad alzare un dito accusatorio sul sovrappiù di copula se questo, in qualche modo, giovasse all’altro tema centrale del film, ossia la libertà. Eppure, anche di questa si fa macchietta. La libertà è di fatto ridotta al capriccio, al desiderio puntiforme e istantaneo che comanda soddisfazione immediata e indifferibile. Una volontà, quella della protagonista, che si va chiarendo e rafforzando nel corso della sua esperienza – e, in questo senso, è commendevole l’intento del regista di mostrare come il desiderio della donna vada formandosi, non rispetto al classico specchio deformante del desiderio maschile (al netto dei limiti segnalati sopra), ma come forza affermativa della volontà di Bella di scoprire e di imparare.
Nondimeno, questa sua volenterosa affermazione si articola sempre nella stessa modalità, cioè la fuga dai patti, e si esercita sempre sul medesimo oggetto, cioè il corpo sessualizzato. Bella è renitente a qualsiasi richiesta di impegno, incapace di adempiere a qualsivoglia promessa abbia fatta, se questa entra in collisione con un’altra e più prepotente fantasia. E benché il mitologema del viaggio, superbamente inscenato nel film, voglia con tutta probabilità significare la capacità della donna di trarsi fuori dalle spire dell’asservimento domestico, questo suo viaggio soffre però delle più classiche zavorre. In primo luogo, è tutto all’insegna di un tutorato maschile, che la introduce all’arte amatoria e pretende in cambio ampie compensazioni in natura. Inoltre, da questo inatteso laccio, che le promette libertà e la consegna invece a una rinnovata prigionia, Bella si libera con una radicalizzazione dell’elemento sessuale: la deliberata messa a frutto del suo istintivo talento sessuale.
Insomma, se non ci sentiamo in nessun modo di sconsigliarne la visione, questo è perché Poor Things può essere a buon diritto catalogato nell’ambito dell’intrattenimento più arguto e affascinante. Ma nella misura in cui Lanthimos gioca a fare il rivoluzionario da red carpet, armeggiando con immagini compiaciute e alfine rassicuranti di femminilità, corpo e desiderio, ci sentiamo di lamentare il cedimento di un regista che in molti dei suoi film aveva saputo fare l’opposto: inquietare senza belletti e rifuggire ogni untuoso didatticismo. Con Poor Things tutto questo s’è perso, e così l’integrità di un regista che non accarezzava mai il suo pubblico e lo obbligava piuttosto a conturbanti distopie. Ora l’invito ci pare piuttosto quello di star comodi.
Postscriptum. C’è però una chiave interpretativa più temeraria, e certo meno comoda, che potrebbe ribaltare il senso di quanto abbiamo scritto sopra. Come s’intuisce da alcuni indizi (uno fra tutti il ricorso alla deformazione delle inquadrature) è possibile che il regista abbia voluto trarre in inganno il suo pubblico: chi narra invero è l’assistente McCandles, maschio che del maschile incarna punto di vista e alterazione percettiva. Se così fosse, per paradosso, quanto abbiamo sostenuto a critica di Poor Things potrebbe averne colto il profilo più autentico e provocatorio: esso ribadisce che la libertà femminile è ancor oggi narrata da voce maschile. Questo forse il messaggio in cifra, capace di rovesciare la levità del film nella cupa inquietudine tipica di Lanthimos. O così almeno vogliamo credere.
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