L’immaginario legato al far west degli Stati Uniti è una fonte eterna di fascinazione per romanzieri e registi. Questo genere è da sempre un successo di pubblico: negli spazi liminali va in scena la precarietà della vita
Il western è nell’immaginario collettivo, è parte di noi. Fin da bambini, ancor prima di imparare a leggere, eravamo già in grado di riconoscere la scritta “wanted” sui manifesti coi volti dei fuorilegge accanto all’ingresso del saloon.
Il west lo diamo per scontato, e non sappiamo più cos’è. Sono passati duecento anni dall’invenzione di un genere che per calcolata vocazione è stato popolare e di massa fin dalla sua genesi: nasceva parallelamente alle vicende storiche che raccontava, proprio nel momento in cui la realtà della vita di frontiera era cronaca americana.
Sono passati 200 anni, e apparentemente non c’è ragione per cui oggi debbano interessarci i western: storie di uomini (quasi esclusivamente maschi), cavalli e pistole, tutte ambientate nell’ovest degli Stati Uniti durante l’Ottocento. È legittimo che sembri inattuale, polveroso (letteralmente), nostalgico, addirittura passatista o reazionario, col suo carico di violenza machista. Eppure negli ultimi anni il western è tornato in auge. E forse non se n’era mai andato.
Narrazione di massa
Il western nasce sui giornali americani per raccontare storie di conquiste, di pistoleri e di indiani. Cresce poi con i dime-novels, romanzi popolari da 10 cent: la prima storia di successo fu dell’autrice Ann S. Stephens, che a metà Ottocento vendette 65mila copie in pochi mesi.
Tra i classici, prima di lei, c’era già stato James Fenimore Cooper, autore nel 1826 de L’ultimo dei mohicani: storia che avrà ben cinque adattamenti cinematografici, tra cui quello del 1992 di Michael Mann. Sarebbero piovute infinite altre storie “ispirate dai fatti veri”, che vedevano come protagonisti non solo personaggi esistiti, ma esistenti al momento della pubblicazione, come Wild Bill Hickok, Calamity Jane, Kit Carson e William F. Cody, noto come Buffalo Bill.
Le storie del west affascinavano tutti. Soprattutto coloro che non erano sulla frontiera, ma che vedevano nell’espansione a Ovest il vero mito fondativo e l’incarnazione dei valori americani: la vita, la libertà, il perseguimento della felicità (in termini capitalistici: la terra, l’oro, il successo).
È l’origine del sogno americano. Proprio Buffalo Bill – nel suo essere persona, personaggio, interprete-replica di sé stesso all’interno del proprio “Wild West Show” – esporterà nel mondo l’immaginario del West, rendendolo universale. Storici come Rydell e Kroes sostengono che è proprio in quel momento che è iniziata l’americanizzazione del mondo: Buffalo Bill è stata la prima vera popstar di fama mondiale.
In Italia la sua leggenda fu così duratura che negli anni Quaranta il fascismo tentò di mettere al bando gli albi ispirati alle avventure dell’eroe americano (e non riuscendoci provò a diffondere la voce delle presunte origini italiche di Buffalo Bill…). Finita l’epoca del circo, ci pensò il cinema a consolidare il mito del far-west, a definire grammatica e sintassi di una nuova epica.
In tanti sostengono che i western abbiano avuto per l’America – e quindi per l’occidente contemporaneo – il ruolo che l’Iliade ha avuto per il mondo classico. Dando per assodato il collegamento, Sergio Leone sosteneva che il più grande regista di western fosse Omero. Navi anziché cavalli, le lance al posto delle colt. E proprio come i poemi omerici, ancora oggi le storie di frontiera ci parlano.
Su schermo e su carta
Dalle origini a oggi, il western è stato rivisitato all’infinito. Dai grandi classici di John Ford agli spaghetti-western, dalle parodie di Bud Spencer e Terence Hill ai crossover più assurdi (steampunk, fantascientifici, con gli zombie…).
Anche se tutto è apparentemente già scritto e riscritto, ancora oggi i grandi maestri del cinema continuano a confrontarsi col genere: Tarantino, i fratelli Coen, Scorsese, Anderson, Iñárritu, Campion, solo per citare alcuni big che recentemente hanno incassato premi e plausi di critica e pubblico.
Se nel cinema americano il western ha sempre avuto peso e credibilità, al netto di una produzione sterminata che contempla inevitabilmente anche centinaia di opere scadenti, diverso è il discorso letterario. Nonostante la maggior parte delle pellicole di successo abbiano spesso origine in racconti e romanzi, il western raramente è associato alla letteratura di qualità.
Eppure nella miriade di romanzetti di dubbio valore, i western letterari sono esistiti, esistono, e per fortuna oggi vengono pubblicati o nuovamente valorizzati.
La morte di Cormac McCarthy ha spinto molti a recuperare, oltre al dittico finale e ai titoli divenuti successi cinematografici, anche i tre romanzi de La trilogia della frontiera e quella che è una vera pietra miliare del western letterario, Meridiano di sangue, del 1985; nello stesso anno anche Larry McMurtry pubblicò una pietra miliare del genere, Lonesome Dove, un kolossal grandioso e crepuscolare che David Foster Wallace inserì nella lista di dieci titoli “da supermercato” indispensabili per il suo corso di prosa narrativa. Proprio in questi giorni esce in Italia, per Einaudi, Il cammino del morto, che del capolavoro di McMurtry è il prequel.
Ci sono poi alcuni veri e propri classici, come l’immenso A.B. Guthrie (la sua opera è interamente pubblicata da Mattioli 1885), o Butcher’s Crossing di John Williams (l’autore di Stoner, in queste settimane entrato a far parte dei Meridiani di Mondadori), autori contemporanei come Samuel Barry e il già citato Punke, o scrittori di culto come Elmore Leonard e J.R. Lansdale (tutti nei cataloghi Einaudi).
Tra le autrici, la “pioniera” Willa Cather, Dorothy M. Johnson (il suo L’uomo che uccise Liberty Valance è appena uscito per Mattioli 1885), la gallese Carys Davies o Annie Proulx, che con i suoi racconti del Wyoming ha saputo narrare meglio di chiunque l’eredità e le contraddizioni del west contemporaneo.
Il razzismo
A proposito di contraddizioni, non si può non tener conto che il genere è stato macchiato da un radicato razzismo verso gli indiani: un genocidio di massa, lungo cinque secoli, che il western ha ignorato, quando non addirittura legittimato. Anche quando i nativi non sono stati presentati come selvaggi assetati di scalpi, spesso la ricchezza e la diversità culturale di ciascun popolo è stata ridotta a caricatura.
Anche se tentativi di ripulire il canone da stereotipi razziali e a dare voce alla prospettiva dei nativi non sono mancate lungo tutto il Novecento (i più celebri, su schermo, furono Piccolo grande uomo, Soldato Blu, Balla coi lupi) va segnalato che nelle librerie italiane nel solo 2023 sono stati pubblicati con merito i lavori di autori nativi come James Welch e N. Scott Momaday (proposti in Italia rispettivamente da Mattioli 1885 e Black Coffee).
La frontiera
Ma se definire cosa sia western non è impossibile, più difficile è spiegare perché il western continui a interessarci. Cosa hanno in comune, di vitale, La fanciulla del West di Puccini, il film Ombre rosse di John Ford, le avventure di Tex Willer, Il grande cielo di A.B. Guthrie, la Trilogia del dollaro di Sergio Leone, il videogioco Red Dead Redemption di Rockstar Games?
Perché, pur con tutte le necessarie evoluzioni – talvolta radicali – continuiamo a esserne affascinati? Cosa ci attira di banditi, pistoleri, cowboy e prostitute in qualche landa sperduta?
A definire la potenza del genere non sono i personaggi codificati, le loro relazioni prevedibili, i cliché che accompagnano ogni scena, la meccanica degli scontri. Almeno in origine il western era un preciso veicolo di valori in cui i giovani Stati Uniti intendevano riconoscersi. Ma se orgoglio, onore e testosterone oggi possono interessare solo i wasp dell’alt-right, è chiaro che non stia più lì il potenziale narrativo di un genere altrimenti destinato a una nicchia di nostalgici.
Questa modernità – e questa disponibilità a costanti invenzioni – probabilmente è più evidente per le generazioni che hanno conosciuto prima i sottogeneri derivati rispetto agli originali: leggere McCarthy prima di vedere Un dollaro d’onore rende più chiaro che oggi il western ci chiama verso l’idea stessa di frontiera. La frontiera come set, ma anche come condizione esistenziale: un mondo liminale da dover esplorare, un passato da lasciare alle spalle, un’identità da definire, una prova totale.
La frontiera non finisce mai: a differenza di un confine, che può essere superato, la frontiera può essere solo inseguita. Se i confini un tempo erano il corso del Mississippi-Missouri, i deserti dell’Arizona, le Montagne Rocciose, la frontiera era tutto ciò che stava oltre.
Uno scenario narrativo sterminato, perfetto per accogliere ogni giorno nuove storie. Nella frontiera c’è spazio e tempo per mettere in scena la precarietà dell’esistenza, la relazione con l’altro e con la natura, il confronto col male, l’onnipresenza e l’inevitabilità della morte, la ricerca di senso. Sono sfide che non hanno tempo, che trascendono la prospettiva storica. In questo continuo cavalcare oltre le barriere fisiche e culturali, c’è l’essenza pura dell’umanità errante.
Alessandro Baricco ha definito il suo Abel «western metafisico»: credo che tutti i western ormai non possano prescindere dall’aprirsi a dimensioni ulteriori. La frontiera è la direzione a cui tendere, il limite o il desiderio da guardare negli occhi, la fine che chiama. La frontiera non è solo l’oggetto della letteratura, ma lo scopo della letteratura. Per questo ne abbiamo ancora bisogno.
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