«Non è scontato che all’inizio del vangelo di Giovanni si dica “In principio era la parola”. Avrebbe potuto esserci qualcos’altro, al posto di “parola”. “In principio era il pettegolezzo”, per esempio. O “In principio erano i soldi”. Perché no?».

Lo sapevo che non mi avrebbe deluso. Sono andato all’ospedale civile di Venezia per sentire lui, Peter Sloterdijk, anche se era chiamato a fare solo una breve introduzione (la lectio magistralis l’ha tenuta il giorno dopo, e io me la sono persa. Sloterdijk è tra i protagonisti del nuovo progetto di Venezia, La Biennale della Parola, Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem di Meister Eckhart (Ospedale Civile SS. Giovanni e Paolo, 5 > 9 marzo 2025, in replica 11 > 15 marzo 2025). Ma anche in quella decina di minuti, il settantottenne filosofo di Karlsruhe ci ha dato qualche graffio dei suoi.

Parlava in inglese, e come sempre spargeva idee sfiziose con il suo taglio chiaro e umoristico. Aveva il compito di avviarci all’ascolto di una lettura ripida: alcune pagine del commento di Meister Eckhart al vangelo di Giovanni.

Nel suo discorsetto Sloterdijk ha sintetizzato il destino di questi esseri gracili e superbi, le parole umane (cioè noi che stai leggendo adesso, che vedi qui allineate su questa riga e che parli dappertutto, sempre), rievocandone le tappe fondamentali. Prima di tutto, la scoperta di Platone, la parola veridica, che va separata e innalzata sopra il resto dei discorsi, che invece sono soltanto gossip: ha continuato a chiamarli così, gossip, mai dòxa né, heideggerianamente, chiacchiere. (A proposito di Heidegger: ci tengo, ma ci tengo proprio, a segnalare che di recente la casa editrice Tlon ha colmato un buco nella bibliografia di Sloterdijk, ripescando e ritoccando la traduzione italiana del bellissimo Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, ormai introvabile: anni fa avevo investito l’equivalente di due cene fuori per comprare la vecchia edizione Bompiani su eBay).

Sloterdijk ha dato un’altra zampata quando ha detto che dio, il quale conosce solo parole veridiche, non potrebbe comprendere il nostro linguaggio: il gossip umano gli resterebbe alieno. Ha chiuso la sua sintesi ricordando che il destino delle parole ha subìto un altro scossone epocale da Wittgenstein, il quale, “purtroppo” (Sloterdiik ha calcato su quel “purtroppo”) ha smantellato la gerarchia verticale fra la parola veridica e il gossip, livellandola nella compresenza orizzontale dei vari giochi linguistici; raccontare barzellette, fare ipotesi scientifiche, dare ordini: le parole giocano campionati diversi, uno di fianco all’altro, ciascuno con le sue regole.

IL MISTICO ALLA BIENNALE

Sono andato ad ascoltare Sloterdijk all’ospedale civile perché è lì che la Biennale di Venezia, dal 5 al 15 marzo (gratis su prenotazione), con la regia e drammaturgia di Antonello Pocetti, ha organizzato una serie di letture – ogni sera diverse – di Meister Eckhart, il mistico tedesco contemporaneo di Dante, trascelte dal suo Commento al Vangelo di Giovanni, o Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem: delle cui cinquecento pagine in latino, fino a quella sera, non avevo letto una riga. Ce ne sono di carine. Per esempio queste: «Delicato colui per il quale la patria è dolce; forte colui cui ogni terra è patria, ma perfetto colui per il quale l’intero mondo è esilio». Fanno pensare ai versi di Francesco Nappo resi celebri da Giorgio Agamben: «La patria sarà quando / tutti saremo stranieri»; e all’edizione del 2024 della Biennale d’Arte stessa, che si intitolava “Stranieri ovunque”; è vero però che quelli contemporanei suonano come appelli di attivisti politici, mentre le parole di Eckhart fanno venire un brivido creaturale di estraneità al mondo, e alla vita stessa su questa Terra. (Poi però a casa ho controllato: non sono parole di Eckhart, è una citazione che lui ha preso da Ugo di San Vittore).

Non ho ancora descritto bene dov’ero. L’ospedale civile di Venezia ha sede nella Scuola Grande di San Marco, il capolavoro di fine Quattrocento di Pietro Lombardo; piaceva moltissimo a Ruskin: per lui era uno dei massimi esempi della Venezia vera, quella gotica, prima che il Rinascimento la imbastardisse.

Fra le alte colonne dell’atrio, o meglio del pòrtego, lo scenografo Antonino Viola ha isolato un parallelepipedo di teli tesi, per servire da pareti e da schermi alle proiezioni; che cosa ci hanno mostrato ve lo dico dopo. All’interno di quel cubicolo tessile c’eravamo noi ascoltatori, seduti su un’ottantina di seggiole. All’esterno, immaginavo i passi sparuti di qualche infermiere che smontava dal turno, o un parente che accorreva al capezzale di un’agonia.

LE VOCI E LO SCHERMO

Le luci si abbassano, entra un coro di uomini e donne in completi neri, si dissemina in piedi davanti alle aste dei microfoni. Attaccano a cantare all’unisono Spiritus est qui vivificat. Tre impeccabili attori, Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita, si fanno strada fino al centro della pedana recitando a memoria le parole di Meister Eckhart, poi si piazzano ai leggii e le proclamano. Anche loro in tiro, stilosissimi in stoffe tutte nere, più presentatori di premi David di Donatello che predicatori medioevali.

Ascoltavo il vangelo e il suo capzioso commento, ed ero stranito dall’improvvisa conversione della Biennale (le avanguardie!, il Novecento!) sulla via del misticismo, incoraggiata dal suo presidente, Pietrangelo Buttafuoco. E d’altronde, si sa che la cultura è una specie di rito, e che dal postmoderno in poi si cercano disperatamente surrogati di religiosità dappertutto, dalla new age all’armocromia, purché non ci siano preti di mezzo. Ma allora tanto vale rivolgersi agli originali, e ascoltare Meister Eckhart. Ascoltavo, dunque, e guardavo lo schermo del mio telefono. Il mio vicino di seggiola mi puncicava di occhiatacce: «Vergogna, nemmeno ammantato da questo nimbo spirituale riesci a fare a meno di controllare i risultati degli ottavi di finale delle coppe europee», mi dicevano i suoi sguardi silenziosi. «Veramente, un hacker dell’ufficio stampa mi ha passato di straforo il copione della serata», gli ho risposto stando zitto, con un gesto, girando il mio schermetto verso di lui e mostrandogli il testo di Eckhart, perché io sono uno che deve sempre giustificarsi su tutto, se non mi giustifico non sto bene.

Grazie al copione sotto gli occhi, ho potuto concentrarmi meglio sul testo, non certo facile da assorbire solo con le orecchie; mentre il Coro della Cappella Marciana guidato da Marco Gemmani ci dava un po’ di respiro fra un paragrafo e l’altro con altri canti gregoriani, io potevo leggerlo e rileggerlo comodamente nero su bianco (per chi vuole, Bompiani ha pubblicato il Commento al Vangelo di Giovanni di Meister Eckhart nella monumentale serie di volumi “Il Pensiero Occidentale”; sono milleottantotto pagine, testo latino a fronte compreso).

DIO È UN SOGNO DELLE PAROLE

Non è mica la prima volta che sento risuonare in scena parole così irte: proprio alla Biennale, in una delle edizioni del festival di Teatro dirette da Franco Quadri, nel 1984 Marisa Fabbri snocciolò per un’ora a memoria la prefazione del Trattato teologico-politico di Baruch Spinoza.

Ascoltando le citazioni del vangelo commentate da Eckhart ho ritrovato la solita imbarazzante utopia geppettistica, in cui un papà partorisce un pargolo da sé, senza mediazione femminile: «Io e il padre siamo uno, una cosa sola… il figlio unigenito è nel seno del padre…». Ma subito Eckhart mi ha rimesso in riga stroncando le mie spiritosaggini: «Nella divinità è identico maschio e femmina, pari e di­spari, padre e madre».

Durante i canti e le letture, nella penombra elegante si proiettavano sui teli intorno a noi le figure di padri e figli divini: Masaccio, Antonello Da Messina, Michelangelo… Le immagini elettroniche erano di Andrew Quinn, lo stesso degli effetti digitali di Matrix. Non erano semplici sciami di pixel, ma lettere latine ed ebraiche; sì, perché se guardi da vicino le nostre religioni idolatriche e iconofile, ti accorgi che le figure divine sono fantasticherie germinate dalle parole: se ingrandisci i volti di dio e di suo figlio fino al livello cellulare delle epidermidi, scopri che sono fatti di parole, sono abbacinamenti di lettere addormentate, che vibrano e si dimenano in fase Rem. Dio è un sogno sognato dalle parole.

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