I food district sono aree delle nostre città dedicate al cibo. A volte, soprattutto quando sono imposti dall'alto, insieme alle novità possono portare gentrificazione e snaturamento. Ma quando nascono spontaneamente e offrono varietà di prodotti, stili e valori, sono un veicolo di rivitalizzazione culturale per l'intero quartiere
Se le città si rinnovano, mostrando sempre nuove forme e nuovi contenuti, il merito è anche dei food district. È una rivoluzione (come vedremo anche controversa) che coinvolge aziende della gastronomia, urbanisti e amministrazioni comunali. In breve, un food district è una zona urbana in cui c’è una concentrazione molto alta di luoghi dedicati al cibo.
Questi luoghi a volte aprono tutti insieme, quando c’è l’espressa volontà di un comune o di un municipio di realizzare un food district, che come tale sarà definito nelle pubblicità, nelle indicazioni stradali e nelle mappe sui nostri telefonini. Altre volte invece questi distretti si sviluppano gradualmente e spontaneamente; questa seconda categoria è decisamente meno dichiarata, non c’è nessuna insegna a dirci dove sono ma intanto anche loro sono innegabilmente dei food district.
Entrambe le categorie hanno una grande capacità, quella di animare e aprire al nuovo i quartieri in cui sorgono. In questo costituiscono una grande novità rispetto al passato. Fino agli anni Novanta, infatti, le iniziative di quartiere inerenti il cibo tendevano a chiudere ogni area e servire solo gli abitanti della zona. Mercati rionali o gruppi di acquisto solidale, per esempio, sono pensati per gli abitanti del quartiere.
Inoltre, chi li frequenta è “contro” qualcosa, in questi casi i supermercati e la filiera lunga. Ne risulta che il cibo da una parte rafforza i legami tra gli abitanti del quartiere, che si riuniscono nei gruppi di acquisto o si incontrano al mercato; ma dall’altra favorisce la chiusura dell’area ai consumatori provenienti da fuori.
Le ultime tendenze, dicono gli urbanisti, sono opposte: i quartieri si aprono, allargano le braccia al resto della città e ai turisti più curiosi, dialogando per attirare sempre nuovi ospiti. Nei food district il cibo si può comprare, consumare, conoscere e perché no, usare per fare rete e socializzare, in maniera diversa dalle vecchie logiche ma con la stessa efficacia.
A volere questi distretti adesso sono molte amministrazioni comunali, in quanto molto utili se si vuole rivitalizzare un quartiere in crisi. È una logica circolare: grazie al dialogo tra nuove concezioni del cibo e nuovi consumatori, questi distretti favoriscono l’innovazione gastronomica, ma anche quella culturale sotto forma di architettura (le ristrutturazioni di molte abitazioni, l’arrivo di nuovi uffici), di modalità di aggregazione (co-working, iniziative sociali), di conoscenza (corsi, scuole, etc.). Tutto facile quindi? Ovviamente no.
Corvetto e Santa Giulia
Il sindaco Sala a Milano ha potuto toccare con mano la difficoltà di realizzare un nuovo polo alimentare quando insieme a Fondazione Cariplo ha tentato di rivitalizzare il quartiere Corvetto. Il tentativo era di rinnovare il vecchio mercato coperto con ristoranti e negozi anche molto diversi da quelli tradizionali. Centri sociali e alcuni abitanti hanno visto il pericolo di gentrification e snaturamento del quartiere e si sono opposti in maniera decisa. E così, dopo vari tentennamenti, l’iniziativa è naufragata. Il problema è quello di sempre: quando innovi arrivano nuovi abitanti con possibilità di spendere. I prezzi delle case sia in affitto che in vendita aumentano, i vecchi abitanti e commercianti locali sono costretti ad andare via e l’area per qualcuno cambia, per altri si snatura.
Stefano Bianco, presidente del municipio 4, ritiene che si debba porre la massima attenzione per scongiurare il rischio della gentrificazione, ma non solo: «Queste iniziative hanno bisogno di equilibrio innanzitutto nei prezzi, non puoi mettere solo negozi di fascia medio-alta in una zona che ha una bassa capacità di spesa. E poi bisogna bilanciare commercio e servizi, prevedendo anche spazi aggregativi che possano essere usufruiti liberamente, dove il cittadino non sia considerato solo un consumatore». Certo, vedere oggi il mercato di Corvetto con le botteghe all’80 per cento chiuse fa pensare. «Il comune sta lavorando per un prossimo intervento di riqualificazione», dice Bianco.
Sempre a Milano, lo Spark Food District di Santa Giulia, una zona dove hanno sede aziende molto grandi e importanti, non ha incontrato gli stessi problemi. Bianco, oltre ad essere Presidente del Municipio competente anche su questo ambito territoriale, abita qui da anni: «Lo Spark Food District, avviato da circa due anni, funziona abbastanza bene. Lo frequentano soprattutto i lavoratori a pranzo, ma anche i residenti in particolare alla sera e nei weekend». È costituito interamente di catene nazionali e internazionali, con una molteplicità di offerte che vanno dalla pizza al poké, dall’hamburger al sushi e altro ancora.
«Sono soprattutto fast food», continua Bianco, «di fascia medio-alta. Anche i residenti e il municipio sono stati coinvolti, in qualità di stakeholder, nello sviluppo di questo contesto e in particolare nella progettazione della piazza limitrofa. I pregi di questo distretto sono la particolare cura degli spazi esterni dei locali commerciali, con dehor e arredi coordinati, un’offerta varia e senza sovrapposizioni, in un ambiente piacevole e ordinato».
Nella vicina promenade pedonale ci sono invece locali che preesistevano al district: una panetteria e pasticceria siciliana che a pranzo ti fa mangiare a buon prezzo, un pizza-kebab e altri negozi e ristoranti, tutti con la stessa architettura iper-moderna (la zona è totalmente nuova). «Qui le tipologie commerciali e le aperture non sono state coordinate come dall’altra parte», dice Bianco, «e infatti ci sono più bar vicini che faticano a trovare tutti la loro clientela. Probabilmente è la ragione per la quale, nel corso degli anni, abbiamo assistito a svariate chiusure e ad un ricorrente avvicendamento di vecchi e nuovi esercizi commerciali all’interno dei medesimi negozi».
Se nasce dal basso
In definitiva è il miscuglio fra tradizione e novità che produce i risultati migliori. A Roma la zona del Circo Massimo è un food district che richiama sia i romani che i molti turisti presenti nella zona. Il suo cuore è Campagna amica, un mercato dove si possono comprare o consumare cibi prodotti da aziende locali, pani con grani antichi e piatti della tradizione.
Ma intorno ci sono proposte di cibo molto innovative e premiate dai consumatori. Ristoranti come Rosso, Il Circoletto o Numa al Circo puntano su una cucina variegata e innovativa o rielaborano il gusto esistente; questi posti offrono spesso diverse tipologie di consumo nello stesso luogo, dall’aperitivo alla cena allo stuzzichino, diventando dei salotti dove intrattenersi mentre si mangia.
È un food district spontaneo perfettamente tagliato per i gusti del quartiere e dei turisti più curiosi del cibo italiano, al di là degli stereotipi. Tutto molto diverso dal cibo scadente, carissimo e privo di innovazione di altre zone turistiche di Roma.
In fondo, quello che fa funzionare i food district è la varietà: di prodotti, di modalità di consumo o di tipologia di clientela. In realtà i food district sono l’idea dei cinema multisala applicata al cibo. Le persone vanno lì non sapendo ancora cosa scegliere, ma sicuri che troveranno un’offerta variegata e alla fine sceglieranno cosa comprare o mangiare. Non a caso i multisala sono spesso anche dei piccoli food district, con alle uscite pizzerie, ristoranti asiatici, fast food e molto altro.
Se li guardiamo da vicino, ci accorgiamo poi che i migliori food district contengono tutti i trend della cultura del cibo di oggi. C’è sicuramente l’allegro miscuglio tra antico e moderno, tradizionale e innovativo, nazionale e internazionale, piccolo e grande che è tipico della gastronomia odierna, in barba a chi vorrebbe sempre separare, contenere, conservare.
Un altro elemento attuale è la coesistenza di tutti gli stadi del ciclo del cibo nello stesso luogo: produzione, preparazione, acquisto, consumo e persino smaltimento (con le raccomandazioni su come differenziare). Poi c’è la forte presenza di catene globali, realtà che hanno ridiscusso il concetto di cibo di qualità (anche chi è grande può fare cibo per bene).
Ancora, non manca il cibo tradizionale. Inoltre, i food district offrono un’esperienza spaziale, sensoriale e culturale oltre che di gusto, con architetture nuove, sperimentazioni di nuovi sapori e la capacità di diventare salotto. Infine, si offre cibo a tutte le ore.
E così, anche con i suoi problemi, il food district è lì in città ad aspettarci, indispensabile alla cultura gastronomica di oggi e capace di rinnovare un quartiere attraverso il cibo, a conferma che ciò che mangiamo è un inarrestabile fattore di socializzazione e innovazione.
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