Al posto del calzolaio arriva la polpetteria, le botteghe affogano in un bicchiere di birra artigianale. I quartieri non si gentrificano solo attraverso palazzoni di lusso: anche il cibo può cambiare il loro volto. Un’offerta gastronomica che insegue una tipicità stereotipata o i trend più in voga suTikTok. Via Sarpi a Milano è un caso di scuola. Ma esistono anche esempi di riqualificazioni che valorizzano la comunità
Due amici stanno bevendo una birra artigianale in un dehor in Vanchiglia, un quartiere a nord del centro di Torino. Si guardano intorno e all’improvviso si accorgono di qualcosa, c’è uno strappo nel cielo di carta: quella strada non è la stessa strada che era prima. «Cosa è successo?» chiede il primo. «La gentrificazione» risponde il secondo. Anzi, ancora di più: dal momento che sono circondati di locali dove mangiare o bere si rendono conto che quello che è avvenuto è la foodification.
Se la gentrificazione è il processo per cui una classe sociale medio-alta mano a mano si inserisce nei quartieri periferici, sostituendosi agli abitanti di prima, la foodification è la sua declinazione in chiave mangereccia. Al posto dei negozi comuni, come un calzolaio, un ferramenta, arrivano ristoranti e bar: «Intere vie dei centri storici diventano dei villaggi gastronomici en plein air», spiega a Cibo Alice Giannitrapani, ricercatrice e docente di Semiotica all’università di Palermo.
I due amici in Vanchiglia, Marco Perucca e Paolo “Tex” Tessarin, quella volta osservano l’infilata di dehor che sono spuntati nelle strade del quartiere e decidono di scrivere uno spettacolo teatrale, Foodification, che poi è diventato un blog e un libro per Eris edizioni (Foodification: come il cibo si è mangiato le città). È un lavoro ironico, senza intenzione di segnare una linea «tra buoni e cattivi»: «Siamo tutti vittime e carnefici, attori più o meno consapevoli di questo processo» racconta Tessarin. Un cameriere e un commensale dialogano, il primo è disincantato, con i dati sul ricambio dei locali, il secondo invece è pieno di ottimismo nei confronti di quello che avviene in città. La sua è «la visione di chi si aggrappa a questa grande narrazione del cibo come ancora di salvezza» dice Perucca. La città è senza nome, ma si riconosce Torino, «la più povera del nord Italia». Ma anche Genova, o Milano: quando hanno portato in tour lo spettacolo ci sono state persone del pubblico che hanno osservato: «State parlando della mia città».
Tipicità stereotipica
Questo fenomeno investe l’intera penisola: Gastronomica, rivista dell’University of California Press, ha pubblicato un articolo dal titolo Gourmet and the Ghetto che riflette sulla foodification del Ghetto ebraico di Roma, mettendo in campo alcuni fattori specifici della zona che hanno reso possibile l’incremento di esercizi di ristorazione, tra cui «la curiosità crescente verso il cibo iperlocale, in questo caso la cucina ebraico-romanesca». Un pezzo su Sicilian Post ha analizzato il fenomeno da Catania a Ragusa, dove «cannoli destrutturati» e enoteche prendono il posto di antiche tipografie: «È una nuova forma di colonialismo, più sottile e subdola. Che minaccia l’identità culturale delle città. La decantata “sicilianità” torna a essere quel vituperato folklore fatto di luoghi comuni».
Una faccia di questo processo è il consolidarsi proprio di una «tipicità stereotipica», come la definisce Alice Giannitrapani. Ci sono determinati piatti che diventano «piatti logo che sintetizzano la cultura alimentare di un certo posto. Cacio e pepe per Roma, caponata in Sicilia. Che magari non considerano altri aspetti come può essere per esempio la stagionalità», dice Giannitrapani. Problematizzando questo concetto, per Giannitrapani si può ritrovare questa tipicità in altre forme, che si possono sposare con le altre necessità del territorio: «La tipicità non sta nel piatto, ma in come lo si racconta».
Con l’aumentare delle possibilità è cambiata la relazione tra i ristoranti e lo spazio. «Il ristorante nasce come luogo ermetico rispetto alla città. Il tavolo aveva un ruolo centripeto» spiega Alice Giannitrapani. Poi questi luoghi hanno iniziato ad aprirsi verso la città: vetrate panoramiche, rooftop. Ora capita che in un’unica via si trovino la pizza al taglio, la birreria, il posto degli arancini, e gli avventori prendono un panino da una parte, il vino dall’altra: «La città diventa parte del ristorante, il tavolo non c’è più oppure diventa solo un perno».
Il caso Chinatown
Il cambiamento dello spazio è del resto centrale nella storia di via Paolo Sarpi. La Chinatown di Milano ha visto una crescita esponenziale della propria offerta gastronomica negli ultimi anni, anche grazie alla pedonalizzazione della strada. «In Italia c’è un tasso di proprietà della casa molto alto, quindi è molto più facile vedere i cambiamenti di un’area al ground level, quello del commercio, perché i negozi spesso sono in affitto» spiega Lidia K.C. Manzo, docente di Sociologia della Cultura e della Comunicazione presso il dipartimento di Lingue, letterature, culture e mediazioni dell’Università Statale di Milano, che ha dedicato anni di studio al fenomeno della gentrificazione di Paolo Sarpi e ha realizzato il documentario Via|da|Paolo Sarpi.
«Via Paolo Sarpi ha la conformazione di un villaggio: a parte le due arterie nella seconda metà del Novecento c’era un dedalo viuzze in cui sono stati costruiti edifici residenziali con spazi commerciali al piano terra o nelle corti interne. Nella seconda metà del Novecento questi erano occupati da piccoli artigiani e dai cosiddetti negozi “di vicinato” che a mano a mano sono scomparsi, facendo spazio a negozi di tipo etnico, per esempio. In questo quartiere in particolare il ricambio commerciale etnico cinese si è dimostrato da subito molto dinamico in questo senso, sicuramente con un tasso di ricambio decisamente più veloce rispetto a quello dei residenti, che per lungo tempo era per lo più costituito da anziani, famiglie con bambini e qualche professionista», dice Manzo.
Residenti che, in realtà, sono per lo più bianchi e di ceto medio-alto. Gli imprenditori cinesi avevano aperto sempre più laboratori e attività all’ingrosso, che richiedevano il passaggio di mezzi pesanti che si fermavano in strada per caricare e scaricare le merci: a un certo punto la tensione con i residenti, specie più anziani, era arrivata al momento di rottura.
Tra il 2007 e il 2008, il comune aveva quindi iniziato a mettere in atto una serie di pratiche volte indirettamente a dissuadere queste attività all’ingrosso. «Siamo nell’epoca dell’amministrazione Moratti, la destra è al governo della città. Un giovane Matteo Salvini è consigliere comunale, con tutta una serie di narrative stigmatizzanti verso il commercio etnico» spiega Manzo. Tra gli strumenti utilizzati, per esempio, le multe ai carrellini per gli scatoloni e una zona a traffico limitato introdotta per i residenti. Nel 2007 era partita quindi una “rivolta cinese”: 300 commercianti erano scesi in strada protestando per le condizioni di lavoro rese impossibili da queste politiche.
Nel frattempo, le aree intorno si stavano trasformando: all’interno del processo di rigenerazione di Garibaldi e Porta Nuova, è arrivata quindi la pedonalizzazione di Sarpi nel 2012. Gli imprenditori cinesi, sempre dinamici, si sono reinventati nel food and drink, ma anche diversi imprenditori italiani hanno iniziato ad aprire le loro catene. In due diverse rilevazioni, nel 2009 e nel 2015, Manzo ha visto una crescita delle attività del food and drink del 30 per cento. Nove anni dopo, Sarpi è diventata «quasi un parco a tema»: «C’è una mercificazione della tradizione, del concetto di Chinatown: un attributo culturale etnico come la cinesità qui viene estetizzato e acquista un peso economico, diventa un bene di cui fare esperienza» spiega.
Sarpi social
La comunicazione è stata imprescindibile per il boom della zona anche prima dei social: «Sarpi si trova vicino alla sede Rai di Corso Sempione, se ci si riflette bene è sempre stata frequentata da operatori dei media e dal mondo dell’editoria» dice Manzo. Ora basta scrollare TikTok: le varianti dell’hashtag “Sarpi”, “Chinatown Milano”, “Chinatown Street Food” non si contano, e se già il social, come anche Instagram, si presta particolarmente ai contenuti mangerecci il post sui “Cinque migliori posti dove mangiare cinese in Sarpi” non può mancare. Che si tratti dei ravioli, o del bubble tea, o della crêpe con la creme brulée dentro, non c’è novità che sfugga all’occhio vigile di TikTok. Che intercetta e amplifica le tendenze.
«Se prima trovavi dieci negozi di cover ora ci sono dieci posti che fanno gli spiedini» racconta Paolo Passaro, conosciuto come @sarpifoodtour. Residente nel quartiere da quasi vent’anni, sul suo profilo Instagram condivide la trasformazione della zona, sperimentando i nuovi posti. Adesso vanno gli skewers e la via si è riempita di vetrine dove c’è un bancone di verdura, carne e via dicendo, da cui il cliente sceglie gli alimenti per comporre il proprio spiedino. Passaro non ama la modalità a elenco di tanti contenuti social: preferisce adottare lo sguardo dello scopritore ed evitando le realtà “copia e incolla”: «Le produzioni in serie in ogni caso durano pochissimo: vedi un locale che fa una determinata cosa a novembre e qualche mese dopo è diventato un’enoteca».
Nei suoi giri Passaro ogni tanto fa amicizia con i ristoratori. Al gestore di una trattoria cinese, per esempio, ha suggerito di introdurre i ravioli con i friarelli e la proposta ha avuto successo: «Del creare questi contenuti mi piace l’aspetto dell’amicizia, dello scambio di informazioni». Non è il flusso di gente che affolla la strada a turbare Passaro: ama invece la sensazione di stare in un quartiere vivo. Per lui il problema principale delle frotte di turisti, come nelle altre città che puntano sullo street food, è il mancato rispetto del territorio: l’immondizia è ovunque.
Inoltre, questo interesse occidentale verso la cultura cinese non sempre si traduce in una vera sinergia tra comunità: «Non è vero che gli imprenditori cinesi che si sono reinventati ora non sono più stigmatizzati» osserva di nuovo Manzo.Il re-branding economico e culturale della via ha in qualche modo addomesticato la Chinatown per incontrare i gusti più occidentali.
Questo non significa che le attività organizzate dalle associazioni interculturali, che sono anzi molto attive, non siano sincere: «Il punto è quanto sia autentico l’approccio di chi arriva da fuori, di chi vuole fare esperienza di Paolo Sarpi. È un’esperienza di quale Chinatown? Quella addomesticata?». Dall’altro lato, soprattutto gli imprenditori cinesi di seconda e terza generazione stanno emergendo da questo panorama con la capacità di interagire con la comunità. Alcuni degli stessi influencer che su TikTok condividono ricette e consigli su Sarpi sono di origine cinese e creano contenuti sugli shock culturali nel passaggio tra i due paesi, in entrambe le direzioni. «Con il pluralismo non si sbaglia mai», è il consiglio di Manzo per navigare un contesto complesso, «ma per superare certi stereotipi, che sono pensieri pigri, definiamoli così, ci vorrà un altro cambio di generazione».
Pratiche dal basso
Nell’individuare i segnali d’allarme della foodification, Perucca e Tessarin stilano un elenco semiserio: «Prima compare una gastronomia vegana, poi il calzolaio chiude e ci viene una polpetteria, poi arriva la birra artigianale».
Non tutti i casi di foodification vengono per nuocere, però: accanto ai casi di massicce operazioni coordinate dall’alto per “riqualificare” una zona, ci sono anche circoli virtuosi innescati dagli stessi abitanti del quartiere. «Penso a Centocelle a Roma, che ha rilanciato una nuova identità proprio a partire dalla gastronomia» racconta Giannitrapani. Non è poi detto che tutto quello che arriva si sostituisca a quello che c’era prima, sottolinea. A una visione apocalittica del fenomeno preferisce l’analisi critica: in ultimo, spetta al consumatore decidere.
Quello che sia lo spettacolo teatrale di Perucca e Tessarin sia gli studi di Giannitrapani evidenziano è che la pervasiva narrazione del cibo non è sempre affiancata dalla valutazione di quanto sia complesso gestire un’attività di ristorazione. A Torino, osservano Perucca e Tessarin, tre locali su cinque chiudono nei primi due anni.
È stato per sfuggire ai ritmi del centro di Milano che Giorgio Raffaghelli e Lorenza De Rossi hanno deciso di tornare nel quartiere Corvetto e aprire il loro ristorante, Sottobosco. «Volevamo migliorare la qualità della nostra vita, sia come famiglia sia come lavoratori» dice Raffaghelli: due giorni di chiusura a settimana, dieci servizi in tutto. Arrivati alla vigilia della pandemia, sono rimasti colpiti dal supporto del quartiere, che ha apprezzato la loro idea di cucina – tradizionale e sostenibile, con tagli di carne anche meno nobili – e ordinato a domicilio i loro piatti. Lo spazio dove è nato Sottobosco è piazza San Luigi, una zona che si sta trasformando rapidamente. La piazza sarà pedonalizzata: il progetto esiste da anni, ma ora si sta velocizzando. Lì vicino infatti c’è la Fondazione Prada, ed è in arrivo il Villaggio Olimpico per i Giochi invernali di Milano-Cortina. Il ricambio di uffici c’è sempre stato, ma stanno salendo i prezzi delle case in modo esponenziale. Uno degli obiettivi che si erano posti all’apertura Raffaghelli e De Rossi era «rendere la loro realtà accessibile a tutti». Con l’aumento generale dei costi lo scontrino medio sale, ma non c’è l’intenzione di stravolgere il progetto iniziale: quello che conta è «pagare i dipendenti. Voglio mantenere i due giorni di chiusura».
Mandare avanti un progetto che piace, rientrando nei costi e portando un concetto di ristorazione “normale” nella Milano che va troppo veloce è anche l’idea di Trattoria della Gloria, che è arrivata nel 2023 sul Naviglio Pavese, in una piccola fetta del quartiere che ancora non era stata toccata dalla rigenerazione della zona Navigli. Non si è installata al posto di un negozio, ma ha raccolto l’eredità del ristorante che c’era prima, di cui ha mantenuto il nome. I tre soci (su sei) che ci lavorano dentro, Luca Gennati, Rocco Galasso e Tommaso Melilli, chef e scrittore, frequentavano la trattoria originale e quando hanno saputo che i gestori desideravano andare in pensione hanno voluto rilevarla: «Non c’è stata un’analisi della zona o delle sue possibili trasformazioni» spiega Gennati.
La scelta è stata quella di non stravolgere il locale: il menu è breve e segue la stagionalità. La ristrutturazione l’hanno fatta di persona, in pieno agosto: «Per gli abitanti del quartiere è stato importante vederci al lavoro, hanno capito qual era il nostro spirito». La risposta è stata positiva: oltre ai gourmand che arrivano da ogni parte di Milano, i clienti della prima trattoria sono diventati habitué, e con i residenti del palazzo si è creato un rapporto stretto, si chiacchiera sul marciapiede o al bancone. La gente è contenta di tornare a casa e vedere le luci accese. Sul futuro dell’area, non ci sono previsioni. Come ricorda Gennati, «Non è un solo locale che cambia la faccia di un quartiere, ma sono tante operazioni coordinate».
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