- Joshua Cohen è quel genere di scrittore che non si limita a raccontare storie: le condivide. La condivisione in letteratura è una merce molto rara. I romanzieri hanno la tendenza a tenere per sé le proprie storie; le pubblicano, sì, ma raramente le condividono
- «Con I Netanyahu», racconta, «mi sono detto: voglio scrivere un romanzo di Roth, come se Roth fosse nel torto»
-
Questo articolo si trova sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola
Joshua Cohen è quel genere di scrittore che non si limita a raccontare storie: le condivide, le mette a disposizione. La maggior parte degli scrittori di mia conoscenza, in realtà, potrebbero essere spinti a credere di ritrovarsi in questa definizione, ma la condivisione in letteratura è una merce molto rara. I romanzieri hanno la tendenza a tenere per sé le proprie storie; le pubblicano, sì, le diffondono, è vero – anche più di quanto dovrebbero – ma raramente le condividono. Anzi, fanno in modo che diventi molto difficile per chiunque dei loro lettori o ascoltatori riportare una loro storia senza citarne l’autore. La letteratura è un atto di egoismo, nella maggior parte dei casi. Non per Cohen.
Una volta mi ha raccontato una storia e per anni l’ho riutilizzata senza preoccuparmi troppo di menzionare la fonte. So per certo che ci sono altri, ai quali l’ho passata io, che stanno facendo altrettanto.
La storia è questa: durante un tour di presentazione del suo romanzo Il libro dei numeri, Cohen si trovava in una bellissima ma isolata zona della Svizzera tedesca, invitato da un comitato di lettori di prestigio a parlare nelle sale di alcuni maestosi castelli. Faceva base in un alberghetto equidistante da tutte le tappe dei suoi tre o quattro giorni in Confederazione. Una sera, dopo una lettura di fronte a diversi membri dell’aristocrazia elvetica, venne avvicinato da un tipo di mezza età dall’aspetto curato e chiaramente molto benestante che lo invitò a seguirlo nella sua villa: doveva dirgli qualcosa di estremamente importante. Cohen, che era scortato da un autista messo a disposizione dall’organizzazione, declinò l’invito e gli chiese se non potessero parlare lì, al firmacopie. L’uomo disse di no, avrebbe mandato una macchina a prenderlo. A quel punto, Cohen, un po’ in imbarazzo, gli chiese di non farlo e inventò su due piedi un impegno inderogabile.
Tornato in albergo, si sedette al bancone del bar per raccogliere i pensieri. Dopo qualche minuto e pochi sorsi di una birra assolutamente imprescindibile, l’uomo della presentazione gli comparve di fianco. Cohen trasalì, ma mantenne la calma.
«Le devo assolutamente parlare», fece il tipo. «Mi parli qui». «Non posso, venga a casa mia». «Preferirei di no, sono stanco».
Allora il tipo propose di sedersi a un tavolo isolato. Cohen lo lasciò andare avanti e cercò con lo sguardo una rassicurazione da parte del barista, che gli fece capire che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Si sedettero e il tipo andò al sodo: «Ho una fotografia di Thomas Pynchon scattata meno di una settimana fa». Era un’assurdità per una serie di evidenti motivi, non ultimo il fatto che di foto di Pynchon non ne esistono di più recenti del 1955, ma Cohen, a quel punto, da bravo romanziere, voleva vedere come sarebbe andata.
«E come fa ad averla?», chiese. «Ho molti soldi. Ho pagato un investigatore perché lo trovasse e lo fotografasse». «Va bene, me la mostri».
Il tipo scoprì le sue carte: in cambio della foto voleva un piccolo favore sessuale. Cohen declinò di nuovo e fece per alzarsi. «Gliela mostro comunque», disse l’uomo. E così, Joshua Cohen si ritrovò in possesso di una delle rarissime immagini contemporanee di Pynchon, forse l’unica in circolazione.
È una storia che può interessare solo agli scrittori fissati con la letteratura americana: dopo che me l’ebbe raccontata ho voluto anch’io vedere la foto. Sembrava proprio lui e Josh me l’ha regalata, assieme a tutto l’aneddoto. Quando ci siamo sentiti per parlare del suo ultimo libro, I Netanyahu, che gli è valso il premio Pulitzer per la narrativa, questa faccenda mi è tornata in mente.
Ti ricordi l’aneddoto di Pynchon?
Certo!
Come è andata avanti?
La foto è sempre l’unica che io abbia trovato, mi hanno confermato che è proprio lui, e continua a non valere niente. Però è una bella storia.
Ho letto I Netanyahu ed è un gran bel libro, ha molto dell’aneddoto di Pynchon e di altre storie che ti ho sentito raccontare e si discosta dai tuoi ultimi lavori…
È un libro che torna indietro nel tempo, in molti sensi. Ho voluto recuperare un tipo di letteratura che appartiene a una o due generazioni fa e rendere omaggio alla letteratura stessa, come si usava fare una volta soprattutto in ambiente accademico e di critica letteraria.
Sembra uscito da quella tradizione che lega i fratelli Singer a J.D. Salinger, Saul Bellow e Philip Roth…
Lo so, avrei dovuto pensarci meglio… Un libro ambientato nell’accademia dei primi anni Sessanta, nel campus di un college, che parla di identità israeliana e identità americana è qualcosa che non ha proprio nulla a che vedere con la letteratura contemporanea.
Mentre lo scrivevo pensavo a Harold Bloom. Nei suoi ultimi anni siamo stati amici e per me lui era il bravo ragazzo di quelle generazioni che si sono fuse assieme nel grande filone ebraico americano del secolo scorso. Bellow ha avuto cinque mogli, Roth era Roth e lo è stato fino all’ultimo, Bloom era quello con la testa sulle spalle; aveva ricevuto un’educazione più tradizionale, parlava Yiddish e aveva imparato l’inglese a 17 anni; si era laureato in una Ivy League ed era diventato un esperto di romanticismo inglese, uno studioso di Shakespeare. Non è male per un ragazzino ebreo mezzo polacco e mezzo lituano cresciuto nel Bronx.
Il portatore sano del canone occidentale, anche questo concetto appartiene a un’altra generazione…
Però esiste. Bloom era diventato il modello della critica letteraria neoconservatrice. Aveva teorizzato il concetto di “tardività”: in ogni generazione si ha la sensazione di essere arrivati troppo tardi, che tutto sia già stato fatto e detto. È intimidente: qual è il valore di un contributo se ogni forma espressiva è già stata esplorata? Per Bloom questa condizione portava alla nascita di due tipi di scrittori: i “forti” e i “deboli”. Gli scrittori deboli sono quelli che essenzialmente si fanno allievi di un maestro passato, e finiscono per copiarlo; però vedono il mondo per com’è, con tutte le sue storture e, in nome del fatalismo che li guida, lo accettano. I forti no: provano a cambiarlo. Non lo accettano, ne danno una versione completamente distorta. Mitizzano il passato trasformandolo in un enorme problema che può essere risolto solo attraverso la loro scrittura. Scrivono per correggere gli errori delle generazioni precedenti.
Un tantino presuntuoso, forse?
Mah, per uno scrittore può anche funzionare. Funziona meno per un primo ministro, per esempio.
Tu in che categoria ricadi?
Nessuna delle due, mi auguro. O entrambe. Con I Netanyahu ho provato a scrivere qualcosa che mi rendesse contemporaneamente un forte e un debole. Ho voluto camminare sul tracciato dei grandi vecchi, non limitandomi a omaggiarli, ma usando le loro ambientazioni, prendendo in prestito dalle loro voci, facendo vivere i loro personaggi, ma contemporaneamente trattandoli come se avessero sbagliato tutto. È stata una scelta molto cosciente. Mi sono detto: voglio scrivere un romanzo di Roth, come se Roth fosse nel torto.
E lo hai dedicato a Bloom…
Da quando non c’è più, mi manca molto. Ho riflettuto molto su ciò che è stata la sua vita e sul suo lavoro. La critica letteraria in sé non mi è mia stata più di tanto utile per scrivere un romanzo, anzi, al limite pensare a quello che sarebbe venuto dopo la pubblicazione mi ha ostacolato. Ma Harold andava oltre questo: assimilava e studiava ansie e nevrosi, ed è ciò che di lui ho usato per scrivere la sua generazione.
Lo hai fatto in un momento in cui la maggior parte degli scrittori sta cercando di tagliare i ponti col passato…
In letteratura tagliare con le generazioni passate è molto difficile. Molto della distruzione del passato come atto di protesta, o dichiarazione di indipendenza politica, è spettacolo. Un plateale atto di rinuncia: più efficace se comunicato verbalmente o visivamente. Funziona nella musica, perché il musicista è completamente assorbito dal momento; funziona in teatro, perché passa attraverso il corpo; funziona su uno schermo, perché avviene in maniera fisica. Deve essere un gesto aggressivo, di confronto, un’esplosione. In letteratura le esplosioni generalmente non funzionano. Penso che nella letteratura ci sia qualcosa di intrinsecamente conservatore.
Eppure, anche in letteratura, ora cercano tutti di esplodere…
Può darsi. Ma è importante capire in che modo la prosa produce un effetto. Non è uno strumento che si può utilizzare se si aspira a un effetto estetico. La prosa descrive e convoglia il pensiero. È un mezzo estremamente trasparente, non contiene l’effetto sorpresa. Può essere usata per descrivere la distruzione del passato, senza che sia essa stessa ad abbatterlo.
I tuoi protagonisti sono storici. Anche la storia ultimamente è un argomento difficile…
La storia è l’incubo dal quale da sempre cerchiamo tutti di svegliarci. Per me il conflitto avviene tra due concetti divergenti di storia: quello medievale, che vede la storia come un infinito ripetersi di cicli identici, e quello progressista, emerso con l’illuminismo. Nel primo caso, la storia è una tragedia continua: infanzia, maturità, declino inevitabile. Nel secondo caso, il fluire della storia è un costante miglioramento. Oggi è stato un po’ meglio di ieri e ieri era meglio dell’altro ieri, e così via. Quindi, anche se i nostri tempi non sono grandiosi, rappresentano un passo avanti rispetto al passato e possiamo sempre contare in un miglioramento futuro.
La storia circolare è anche il fondamento delle grandi religioni…
La visione medievale della storia si fonda sull’esistenza del male nell’universo. C’è qualcosa di profondamente malvagio che ci limita e ci impedisce di tagliare i nodi che ci legano al passato, condannandoci per sempre al ripetersi della tragedia umana. Gli ebrei si stabiliscono da qualche parte, segue un periodo di relativa calma, e poi vengono cacciati, perseguitati, sterminati. È lo spirito del caos: una forza inarrestabile e incontrollabile che ci tiene legati al continuo soffrire. Dall’altra parte, la concezione illuminista presuppone di poter controllare, incanalare questo male rendendolo un mezzo. Sono concetti che hanno cambiato aspetto, si sono vestiti di diversi colori politici, hanno stuzzicato questa o quella corrente accademica, ma sostanzialmente sono rimasti invariati.
È un pensiero sterminato, complesso da rendere in un romanzo e a tratti anche rischioso…
Gli argomenti dei quali è più facile scrivere sono quelli che ti ossessionano, le fissazioni, le cose che ti terrorizzano. Se mi puntassero un fucile alla tempia e mi dicessero, “Scrivi una storia d’amore!”, sarei spacciato. Mi farei sparare. Penso che parte del processo creativo di uno scrittore passi dall’accettare di non avere scelta: il prodotto inevitabile della scrittura è mettere su carta qualcosa che dia fastidio a qualcun altro.
Netanyahu, ad esempio…
In quel caso per me è stata una specie di gioiosa vendetta. Sono cresciuto ad Atlantic City e ho sentito ripetere il nome di Trump di continuo da quando sono nato. Prima del suo ritorno in auge, Ben Netanyahu (che in questo caso è il figlio del protagonista del romanzo, NdR) è stato al potere per 15 anni, ed era cresciuto nei sobborghi di Filadelfia. Atlantic City è dove gli abitanti di Filadelfia vanno al mare, quindi ecco un altro nome che sentivo di continuo.
Poi ho vissuto in Israele, e anche lì è impossibile non imbattersi in quel nome ogni due passi. Però penso che questi nomi, che la storia ha reso così pesanti, perdano di intensità man mano che vengono ripetuti. Diventano marche, come “Kleenex” che è diventato un termine generico per definire i fazzoletti. Li ho in testa da tutta la vita e mi sono detto: cosa posso farne? Un romanzo è una buona risposta.
Uno dei temi che tratti da sempre è l’identità israeliana. Etgar Keret una volta mi ha detto: «Fuori da Israele sono un fascista in quanto israeliano, a casa sono un fascista in quanto di sinistra»…
È come: «Per i francesi sono tedesco, per i tedeschi sono francese e per tutto il resto del mondo sono un ebreo», si può applicare a diversi ambiti. Ho vissuto in Europa da americano ed è molto divertente: tanto per cominciare tutti ti trattano come un idiota, il che è utile. Allo stesso tempo, molti europei vivono nel mito americano da dopo la Seconda guerra mondiale, mentre altri, le nuove generazioni, riconoscono i danni che l’America ha fatto alla stabilità planetaria, eppure fruiscono della cultura americana. Così, per me essere americano significa incarnare un paradosso: sentirsi a casa propria nel mondo ma doversi continuamente scusare. Gli Stati Uniti possono essere molto dannosi, ma sono considerati necessari dal punto di vista culturale
Di Israele non si può dire…
No, Israele per molti non è culturalmente necessario. Ma quello che non tutti tengono in considerazione è che è anche uno dei paesi con la più grande varietà culturale del mondo. Ci abitano persone che provengono da ogni angolo del pianeta, ed è logico, quasi naturale che questa eterogeneità causi una certa tensione, ma anche un certo fervore umoristico.
Parlando di umorismo, ne usi un sacco…
Ho avuto la fortuna di conoscere e poter scambiare qualche idea con persone che hanno partecipato all’era pionieristica delle sitcom. Mi raccontavano che, soprattutto nei primissimi tempi, i budget erano risicati, avevano a disposizione solo una o due telecamere e tutti gli scrittori venivano dalla radio. Molti di loro erano immigrati o figli di immigrati. Nelle sitcom non esiste il concetto di privacy, nessuno bussa alla porta, tutti entrano senza annunciarsi e nessuno si fa mai gli affari propri. È una comunità mutualistica che vive ficcando il naso nelle esistenze degli altri, sostanzialmente costruita sul modello dei palazzi newyorchesi abitati dagli immigrati a metà del secolo scorso…
Mi ricorda Bernard Malamud, o Mrs. Maisel…
Esatto. Volevo scrivere un libro che contenesse anche questo aspetto. Molte delle scene de I Netanyahu sono costruite come scene di una sitcom.
Funziona. Specialmente l’utilizzo dello humor visivo, quasi slapstick, in un tempo in cui tutti si affidano alla stand up comedy…
Il fatto è che non si può mai permettere al narratore di essere un comico. Il narratore deve rimanere fermo immobile mentre tutto attorno a lui si sviluppa la comicità.
Il contrario di stand up…
Giusto. Hollywood fu sostanzialmente fondata da ebrei russi, polacchi e galiziani provenienti dall’industria tessile: un campo in cui si programma sempre per la stagione successiva. Una volta hanno chiesto a uno di questi grandi capi dei primi Studios perché un imprenditore tessile si fosse messo in testa di fare film; ha risposto: «Oh, è la stessa cosa, si tratta di sapere dove tagliare!».
Credi che esista ancora la critica letteraria?
Più che mai. Ai tempi in cui Virginia Woolf scriveva pezzi di critica, l’avranno letta forse in un migliaio di persone. Oggi sono centinaia di migliaia a leggere la New York Review of Books, o la London Review of Books. La quantità di critica che viene prodotta oggi è nettamente superiore a quella del passato, però ci sembra abbia meno impatto. I morti sono sempre più famosi di noi che siamo vivi.
Però è cambiato molto. I libri vendono perché se ne parla su TikTok. Libri che magari sono usciti anni fa cominciano a un tratto a vendere migliaia di copie a settimana perché un giovane tiktoker li ha scoperti…
È fantastico!
Conosco scrittori che non sarebbero così entusiasti…
Ho un nipote di otto anni che qualche giorno fa mi ha fatto conoscere i Nirvana. Mi ha chiesto: «Ne hai mai sentito parlare?». Ho risposto guardandolo dritto negli occhi: «Non ho idea di cosa parli». Così me li ha fatti sentire. Gli ho chiesto come li avesse scoperti e mi ha risposto: «Online».
Niente di più facile.
La cosa bella è che quando gli ho chiesto se volesse sapere dov’ero quando Kurt Cobain si è ucciso mi ha chiesto: «Chi è Kurt Cobain?».
Meraviglioso. È un modo nuovo e fresco di vedere le cose, libero dalle nostre sovrastrutture.
Quello che mi piace di più è l’assoluta mancanza di vergogna nel dichiarare la propria scoperta. Quando ero ragazzo io pensavo che tutti conoscessero tutto e la mia missione era portarmi pari. Non sarei mai andato da qualcuno di più vecchio di me a chiedere se conosceva qualcosa, avrei dato per scontato che lo conoscesse. I ragazzi sanno esattamente quello che stanno facendo, è rassicurante.
Ed è anche un’ottima conclusione. Molti scrittori non sarebbero stati felici di sentirsi paragonare a Roth, oggi, ma questo getta tutta un’altra luce sulla vicenda.
Assolutamente. E più ci si allontana generazionalmente dalla fonte della scoperta, più la si vede con occhi diversi. Mio nipote che scopre i Nirvana lo fa diversamente da come li ho scoperti io prima di lui, con un diverso senso estetico, un diverso bagaglio culturale, una diversa concezione del mondo.
Senza la cattiva storia che gli abbiamo buttato sulle spalle diventa un’ottima scoperta.
E non sa nemmeno che è stata Courtney a uccidere Kurt.
Ah.
© Riproduzione riservata