Leggevo, leggevo, leggevo e mi sorprendevo continuamente di quanto quello scrittore fosse capace di portare la letteratura alla sua massima elasticità senza mai forzare la mano. Nelle sue storie, a tratti paradossali a tratti incredibilmente aderenti alla realtà su cui mi affacciavo in quegli anni, c’era una magia da cui non riuscivo più a separarmi.

Sia nei romanzi sia anche nei racconti, come la memorabile raccolta Fango, Mondadori 1996, Ammaniti ha sempre dimostrato d’essere un meraviglioso giocoliere della parola. Attingendo sia alla lingua di fumetti e videogiochi sia ai racconti dei grandi dell’ottocento – Stevenson, Dickens, Kipling –, ha creato storie al tempo stesso divertentissime e struggenti, personaggi indimenticabili animati da solitudine e rabbia, smania di vita e inesausta ricerca d’amore. E lo ha sempre fatto con una capacità immaginifica che, a mio avviso, in Italia non ha paragoni.

Scrivendo spesso della periferia, una periferia sia dell’anima sia fisica, ha creato microcosmi universali di cui era lui, Ammaniti, a scrivere le regole: Acqua Traverse di Io non ho paura, un agglomerato dimenticato da Dio e dagli uomini, Ischiano Scalo di Ti prendo e ti porto via, lì dove «il mare c’è ma non si vede», Varrano di Come Dio comanda – con cui lo scrittore ha vinto il premio Strega nel 2007 – nonluogo fortemente industrializzato.

Nel 2015 Ammaniti ha pubblicato il suo settimo romanzo e annunciato il suo ritiro dalla letteratura aggiungendo di volersi dedicare al cinema. Ha girato la bella serie tivù Il miracolo, in onda su Sky nel 2018, poi Anna, di nuovo su Sky ma nel 2021, trasposizione del suo ultimo romanzo, Anna, Einaudi 2015. Le due serie sono state ben accolte sia dal pubblico sia dalla critica, il mondo vivace e sfaccettato di Ammaniti, che fino ad allora avevamo conosciuto tra le pagine dei romanzi, sbuca fuori dallo schermo in modo dirompente – specie in Anna, dove fotografia, scenografia sono vibranti di vita. Nonostante questo, però, i lettori dello scrittore romano non si sono mai arresi – mi includo nel novero – e finalmente, dopo otto anni di silenzio, Ammaniti è tornato in libreria con un nuovo, stupendo romanzo: La vita intima, Einaudi 2023.

Niccolò, com’è stato tornare al romanzo?

Molto gratificante.

Quanto ci hai messo, a scrivere La vita intima?

Un anno.

Sei stato più veloce rispetto al passato. O sbaglio?

In effetti sì. Prima per trecento pagine ce ne mettevo tre, di anni.

Scrivere ti era mancato?

No, per niente. Ho lavorato ad altro, nel frattempo, e stavo bene.

Il romanzo è sulla differenza tra la vita intima, appunto – quella interiore e che chi abbiamo attorno difficilmente conosce – e quella esteriore. Pensi che queste due versioni di noi stessi possano convivere pacificamente per sempre o credi che arrivi per tutti un punto di rottura?

Credo possano convivere. O quantomeno, molte persone lasciano che sia così.

Questa scissione avviene in tutti?

Esiste una parte in ciascuno di noi che in sé contiene tutti i pensieri, i desideri, le pulsioni, le paure che sostanzialmente non sono comunicabili agli altri. Si tratta di una parte estranea al mondo ma intima a noi stessi, ed è presente nella maggior parte delle persone.

In Maria Cristina queste due parti sembra entrino in conflitto.

In alcuni casi il rischio è che si scindano completamente, che non rimanga più niente a legarle, e possono nascere dei problemi. È qualcosa che credo accada spesso con i social, in cui si rielabora continuamente la propria immagine. È una dimensione che può prendere il sopravvento sulla vita intima, generando il conflitto che vive Maria Cristina.

A proposito. Qualche giorno fa, in un’intervista hai detto che ciascuno di noi si crea un avatar e a esso ci adattiamo. Per te funziona così?

No, per me no.

Perché?

Non ho bisogno di farlo. Sono ciò che sono sia nella mia vita intima sia nelle apparenze. È anche per questo che non ho account social.

Neanche uno?

Ma no, neanche uno. Il rapporto con i social mi spaventa, a essere sincero. Li osservo, li studio, ma preferisco non farne parte. E poi portano via parecchio tempo, tempo prezioso che uso per altre cose; ascoltare musica, leggere libri, guardare film.

A proposito di tempo libero. Giochi ancora ai videogiochi?

Sì, ancora.

Videogioco preferito?

In realtà, ho giocato a tutti e per molti anni. L’unico che mi ha conquistato sul serio, però, è World of Warcraft. È un gioco-mondo online, e mi ha affascinato sempre moltissimo. Tra l’altro, nel periodo del Covid per me è stato davvero importante, quelle nel gioco erano tra le poche interazioni umane che avevo. E poi lì dentro ci incontro mia sorella.

In che senso?

Giochiamo assieme, online. Tant’è che per me quello è diventato un po’ uno spazio tutto nostro. Soffriamo entrambi di insonnia e così spesso – soprattutto all’alba, prima che il pezzetto di mondo dove abitiamo si svegli e cominci la sua giornata – giochiamo assieme. Mi alzo dal letto, le scrivo un messaggio e, se pure lei è sveglia, traverso casa, buia e silenziosa, mi faccio un caffè e poi ci troviamo lì nel gioco: andiamo a uccidere un drago cattivo, partecipiamo a spedizioni, combattiamo guerre, sempre assieme, e intanto chiacchieriamo, ci diamo consigli a vicenda.

Hai anche detto che vedi poche persone ormai e che esci di rado. Perché?

Non c’è una ragione vera e propria, è il mio carattere. Non amo la socialità.

Nella stessa intervista, però, ricordavi pure il periodo in cui uscivi la sera e la notte, andavi alle feste, frequentavi Bertolucci.

Sì, è vero, ma perché è da qualche anno che esco di meno. Per me la socialità quand’ero più giovane era importante. Mi serviva a rassicurarmi.

Che vuoi dire?

Sentivo come la necessità di dimostrare delle cose agli altri. Andavo alle feste per piacere alle donne, perché volevo farmi conoscere, vedere.

Ti piaceva?

Mi divertivo molto! Questo sì. Poi con il passare del tempo si ha l’impressione che questo genere di socialità diventi la routine e pian piano, senza quasi che uno se ne accorga, la voglia di partecipare passa. Per carità, lo faccio ancora. Esco, vedo persone, e quando sono fuori mi diverto. La prima reazione, però, quando so che devo fare qualcosa è un pensiero del tipo oddio che palle. Ma va bene così, è la vecchiaia.

Ti senti invecchiato?

Come persona un po’ sì, nella scrittura direi di no.

Rispetto ai romanzi precedenti questo è un bel po’ diverso, però.

Forse non c’è più l’eccesso che abitava i miei romanzi e racconti, non ci sono più le esplosioni, e l’ironia è decisamente più controllata. Prima i personaggi delle mie storie facevano ridere per quel che facevano, in questo romanzo per ciò che pensano.

Tu ti senti invecchiato, invece – o almeno, così mi sembra di capire.

In generale, sì. Non mi sento decrepito, però ho sicuramente priorità diverse.

Dei cani che mi dici? So che ci sono due nuovi arrivati, in casa.

Sì, è vero! Ho sempre avuto cani. Per molti anni ne ho avute due che mi hanno accompagnato in quello che forse è stato il mio periodo più bello da scrittore. Poi sono morte di vecchiaia, prima una poi l’altra, così due anni fa ne ho presa una e di recente ho adottato la seconda, la prima mi sembrava si sentisse sola. Sai, per chi non ha mai avuto figli i cani sono un po’ dei sostituti.

Tempo fa hai detto che il paradiso lo immagini come un bel posto in cui tutti i cani che hai avuto ti corrono incontro. Lo vedi ancora così?

Sicuramente mi piacerebbe rincontrarli tutti. Dal primo, Sasà, fino all’ultima, Paoletta. E sì, ecco, lo immagino così perché credo sia una bella immagine. Ti svegli, dopo la morte, intendo, apri gli occhi e tutti i cani che hai avuto nel corso della tua vita ti stanno attorno e ti fanno un mucchio di feste, dandoti il benvenuto.

E l’inferno? Quello come lo immagini?

Non lo immagino. Molti hanno la tendenza a preoccuparsene, ci pensano in continuazione, io no. Giusto qualche giorno fa chiacchieravo con un amico e la conversazione è caduta proprio su questo argomento. Abbiamo immaginato che una persona morta ci chiami al cellulare dall’inferno – perché con sé, per qualche strana ragione, ha ancora il telefono. Abbiamo immaginato di sentirla ansimare e correre e scappare, mentre in sottofondo c’è il rumore di un mostro che la insegue senza posa. Non ha dove nascondersi però, questa persona, non c’è un posto sicuro, ed è costretta a scappare per l’eternità. Sì, forse l’inferno, dovessi immaginarlo, me lo figurerei così.

Credi in Dio?

No.

Maria Cristina dice che non crede ma che spera.

Pure io, ma la speranza è nell’indole umana, ognuno di noi ha in sé la capacità di sperare, che domani la giornata sia migliore o che il paradiso esista, mentre la fede appartiene a pochi, è un dono.

Ti sarebbe piaciuto credere?

Sì, forse sì.

Tornando agli animali. Sono sempre stati importanti nei tuoi romanzi, non solo da un punto di vista concreto – penso ad esempio a Pippo, il cane di Maria Cristina – ma anche per spiegare i meccanismi della storia e dei personaggi: usi spesso immagini etologiche. Perché?

È la mia prima passione. Ho studiato biologia per tanti anni, l’interesse per il mondo animale l’ho sempre avuto. Chissà forse se non avessi fatto lo scrittore sarei diventato un etologo.

Su Maria Cristina: perché proprio la moglie del presidente del Consiglio? Una personaggia del genere l’avevi già scritta, cioè Sole Pietromarchi, la moglie del premier in Il miracolo.

Maria Cristina proviene proprio da Sole Pietromarchi. Scrivendo Il miracolo, mi era balenata in testa l’idea che a Sole potesse arrivare un vecchio video in cui faceva sesso con un ex fidanzato. Ho dovuto scartarla, realizzarla sarebbe stato difficile, il rischio era di spostare il focus della storia, ma mi è comunque rimasta in mente, e lì ha sedimentato. L’idea per La vita intima è nata quando stavo scrivendo Il miracolo, per questo c’è di nuovo la figura della moglie del presidente, ma Maria Cristina e Sole sono persone distanti tra loro.

Sulla scelta di un punto di vista femminile cosa mi dici? L’avevi fatto solo in Anna e un po’ in Ti prendo e ti porto via – con Flora, l’insegnante.

Quando scrivo cerco sempre di alzare l’asticella, fare un passo avanti che mi permetta di dare un senso al mio lavoro. Se sento che una storia è involutiva, che torna su cose che ho già fatto, non sono contento. Ho pensato che calarmi nella mente di una donna adulta e borghese potesse essere interessante.

È qualcosa che hai sempre voluto fare – questo passo avanti, intendo?

Sempre, e penso di averlo sempre fatto – con risultati più o meno buoni, certo.

Come mai ci tieni tanto, a questa evoluzione?

Perché altrimenti rischio di diventare come quei musicisti che, sul finire della carriera, cominciano a pubblicare le raccolte dei loro più grandi successi. Non c’è niente di male, per carità, però io voglio cercare di andare avanti, sempre.

Com’è stato calarsi nei panni di una donna adulta, quindi?

Interessante.

Perché proprio la donna più bella del mondo?

Perché doveva piacermi.

Intendi fisicamente?

Sì, volevo sedermi davanti al computer con l’idea di trovare ad aspettarmi una donna bellissima, erotica ed elegante, una donna che mi eccitasse, ma con un mondo di dolore incomunicabile dentro di sé.

Non ricordo altri tuoi personaggi espressamente di bell’aspetto.

Be’, ne L’ultimo capodanno dell’umanità c’è Giulia, una donna bellissima – nel film, infatti, è stata interpretata da Monica Bellucci.

Ora che ci penso, l’insegnante di Ti prendo e ti porto via, Flora, era bella.

Lei era bellissima, sì! Era cupa, dark. Alcuni pensavano fosse una strega, ma in realtà dentro si portava una sofferenza, un disagio molto grande.

In qualche modo, Flora e Maria Cristina comunicano. O sbaglio?

Interessante. Sì, in effetti sì. Entrambe bellissime e fortemente oggettivizzate per il loro aspetto, impossibilitate di prendere delle decisioni per conto loro e sulla loro vita, viste dagli uomini come bambole. Sì, è vero: comunicano.

Nella storia de La vita intima non c’è niente del tuo trascorso?

Ci sarebbe l’episodio della casetta sull’albero, è un ricordo della mia infanzia, anche se non è andata esattamente come nel libro.

Nel romanzo, in effetti, è il narratore – che ogni tanto si astrae dalla storia – a raccontare l’episodio. Da bambino, ci dice, voleva una casa sull’albero e la madre gliel’ha costruita su una quercia dietro casa. Quarantacinque anni dopo, il narratore torna a casa dei genitori per un pranzo, entra per pura curiosità nella casa sull’albero e ci trova un maialino di peluche di quand’era bambino. Ti va di raccontarmi com’è andata davvero?

Qualche anno fa sono tornato in una casa dei miei che da un lato confina con un bosco e dopo pranzo ho fatto una passeggiata. Lo conosco parecchio bene, quel bosco lì, da ragazzino giocavo tra gli alberi, e ci sono molto affezionato. Insomma, stavo facendo questa passeggiata quando per terra, tra le radici che un po’ spuntano dal terreno e i sassi foderati di muschio, ho trovato un peluche di quand’ero piccolo. Era sporco e acciaccato, rimasto lì in mezzo agli alberi per interi decenni. Ricordo di averlo raccolto, guardato per qualche momento ed è stato come se nella mia testa si fosse aperto un buco nero che conduceva direttamente all’infanzia. Oggetti del genere possono essere come dei puntelli per riaprire gli spazi della memoria. Mi ha colpito molto, realizzarlo.

Per te la memoria è importante? Sei affezionato al ricordo?

Più invecchio, più trovo sia importante. La famiglia di mia madre ha una casa al mare dove, nel corso degli anni, hanno vissuto quattro generazioni e dentro alcuni armadi e cassetti ci sono ancora oggetti appartenuti alle prime persone che hanno abitato lì, oltre a quelli di chi è venuto dopo – esistenze che si sono accumulate nel tempo. Quegli armadi e quei cassetti servono a conservare dei ricordi, e trovo sia una cosa meravigliosa. Fino a qualche anno fa restavo per ore a scartabellare tra quegli oggetti, chiedendomi a chi fossero appartenuti e ricostruendo o immaginando le loro storie – a volte investigando con i parenti ancora in vita, a volte inventando da zero come fossero racconti da scrivere.

I tuoi romanzi sono sempre stati permeati da una forte solitudine, ma la gran parte dei tuoi protagonisti poteva bene o male contare su qualcuno. Maria Cristina invece non ha nessuno. Che tipo di solitudine è la sua?

Non credo si possa categorizzare la solitudine in dei tipi, ognuno ha la propria e per ciascuno di noi è diversa, prende forme sempre differenti.

Tu che rapporto hai con la solitudine?

Ne ho sofferto in alcuni periodi, soprattutto durante gli anni dell’università e dell’adolescenza: mi sentivo incapace di mettermi in contatto con gli altri, di entrare in connessione con chi avevo accanto, e la cosa mi faceva stare male.

Non la soffri più?

Di meno. Mi sento un individuo più solido rispetto ad allora, ma ho anche un gran bisogno d’essere rassicurato quotidianamente della presenza, dell’affetto dei miei cari e dei miei cani.

Lorenzo di Io e te, Pietro di Ti prendo e ti porto via, Cristiano di Come Dio comanda. Chi sono oggi quei ragazzini? Pensi ai tuoi vecchi protagonisti?

Mai. Quando metto un punto a un romanzo per me quella storia è finita, e non ci penso più. Dimentico spesso ciò che ho scritto, non ho un’idea netta di quel che succede nei miei romanzi. Sono sempre proiettato verso cose nuove, mi piace guardare avanti. Nell’istante in cui un nuovo romanzo viene pubblicato tutto quello che vorrei fare è rimettermi a lavoro.

Sul serio hai dimenticato i libri che hai scritto?

Non li ricordo tutti in modo preciso, ecco. Qualche giorno fa stavo scegliendo l’audiolibro che avrei ascoltato e ho visto quello di Io non ho paura. Così l’ho comprato e ascoltato, e mi sono detto ammazza che bel libro che hai scritto!

Tempo fa hai detto che vuoi scrivere storie per ragazzini che stanno per addormentarsi. Che, a letto, cercano di prendere sonno. È ancora così?

No, non più. O almeno, non era questo il caso. Vorrei scrivere libri per lettori, di qualunque età, che pensano di avere quel romanzo sul comodino di casa ad aspettarli dopo una lunga giornata fuori e pensano oddio, che bello, ora torno a casa e leggo fino ad addormentarmi! Leggere fino a prendere sonno per me è bellissimo. C’è un momento in cui, mentre leggo la sera, il sonno comincia a insinuarsi tra le parole e inizio a leggere cose che sulla pagina non ci sono – è meraviglioso! È come se una parte intima di te stesso del sogno entrasse nel libro che stai leggendo, fondendosi con la narrazione.

Lo hai sempre fatto? Hai sempre letto prima di dormire?

Da bambino a casa lo facevo sempre con mio padre accanto, era come un rito tutto nostro e mi piaceva tantissimo. Stavamo sul divano e leggevamo finché non ci addormentavamo.

Tornando a La vita intima. È, tra i tuoi, il libro con i piedi maggiormente piantati nel nostro tempo. Il bruco, ad esempio, mi ha ricordato la bestia di Salvini. Come mai questa immersione nel contemporaneo?

Ci sono sicuramente dei forti riferimenti alla realtà che abitiamo oggi, è vero. È che con il passare del tempo certi tabù da scrittore li ho fatti cadere. Prima volevo scrivere storie universali, in posti inesistenti che rappresentassero ogni luogo. Oggi non è più una priorità per me.

Com’è stato inserire i social in una storia? Per te è stata la prima volta.

Ho dovuto farlo, ma non mi interessa. Il social in sé non produce narrazione. O è importante ai fini della storia, cioè ne cambia il corso, o è inutile.

Qual è il ruolo della finzione oggi?

È fondamentale, e lo è dall’alba dei tempi. Ne abbiamo avuta troppa, però, in questi ultimi anni, e adesso siamo da una parte sazi, dall’altra ancora smaniosi di averne di più. Le piattaforme streaming ci danno una scelta eccessiva e che difficilmente siamo capaci di gestire. Questo porta a una certa confusione, c’è una disponibilità esagerata. Da ragazzino leggevo quello che trovavo in casa, nient’altro. Oggi, secondo me, l’intrattenimento tradizionale sta vivendo una profonda crisi.

La supereremo, questa crisi?

E che ne so io? L’importante è che si continuino a raccontare storie. Sempre.

Niccolò Ammaniti sarà a Testo il 25 febbraio, alle ore 11 in sala Ginzburg, per “Pubblico e privato” un dialogo su La vita intima con Luca Briasco.

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