Ho incontrato Giorgia Soleri a Milano, piovigginava ma c’era il caldo afoso che imbriglia la città in estate, e quel giorno ha portato delle rose; a me e agli altri con noi: una ciascuno. L’ha fatto senza ragione: uno di quegli atti di bellezza privi di senso che un sorriso te lo strappano. E se lo racconto, ora, è perché credo che sia un gesto che la definisce, Soleri. Più di seicentomila seguaci su Instagram, fa la modella e l’influencer, è un’attivista impegnatissima e da poco la sua raccolta di poesie, La signorina nessuno, è in libreria. Per Vallardi. Sebbene si divida tra diversi veicoli d’espressione, però, incontrandola si ha la sensazione che il suo obiettivo sia uno solo: cambiare le cose, fare della società che abitiamo un posto migliore. Un posto dove le persone, senza motivo, una rosa te la portano.

Vivi a Roma, ma sei nata a Milano. Com’è andata l’infanzia milanese?
È stata turbolenta, a dire il vero.

Vale a dire?
Vale a dire violenza, Tso e tribunali. Quando avevo solo quattro anni io e mia madre siamo scappate di casa e siamo andate a vivere in un appartamentino, occupandolo abusivamente. Pensa, non c’era il gas e mia madre mi faceva il bagnetto in una bacinella scaldando l’acqua su un fornellino elettrico, di quelli da campeggio. Di soldi ne avevamo pochissimi, e spesso cenavamo con pane e ketchup; ricordo ancora le baguette dell’Esselunga farcite solo di ketchup.

Lo dici con il sorriso.
Non fraintendermi, è stato un periodo durissimo, specie per mia madre che si doveva occupare di me, dei soldi, del processo per il mio affidamento. Ma ero piccola, e per me quelle baguette tutte piene di ketchup erano cene squisite.

Foto Gabriele D’Agostino

Hai menzionato un processo. A chi sei stata affidata?
A mia madre. Parliamo di cose successe più di vent’anni fa, e la situazione in merito alla violenza di genere era pessima. C’è ancora tanto lavoro da fare, è chiaro, ma all’epoca la situazione era ben peggiore, così mia madre decise di assumere un’avvocata specializzata in casi come quello. Faceva l’infermiera, però, guadagnava poco e la parcella era alta, eravamo costrette a tante rinunce.

Eri cosciente di ciò che succedeva attorno a te?
Mia madre racconta spesso un episodio, dicendomi che sono sempre stata una scimmietta curiosa, lo dice ancora oggi. Stava uscendo, aveva indosso il suo tailleur e quando mi ha salutata le ho chiesto dove stesse andando. Mi ha detto che doveva sbrigare delle commissioni, io le ho risposto che no, non era vero: era troppo elegante. Dove stava andando, quindi?

Riposta?
La verità: stava andando in tribunale.

Ti ha raccontato tutto?
Il necessario. E penso abbia fatto la scelta giusta. Mi ritengo fortunata perché mi ha dato la possibilità di capire cosa stesse accadendo. Alcuni genitori, nel tentativo di proteggere i figli dal dolore del divorzio, non raccontano la verità. Il punto è che comunque i figli lo capiscono, che qualcosa non va, e il vuoto che si crea con una mancanza di spiegazioni viene colmato con delle risposte che si danno loro stessi, i figli.

Come sono andate le cose, poi? Cos’è successo dopo il divorzio?
A Capodanno della mia prima elementare, mia madre ha conosciuto l’uomo che oggi è suo marito. Poco tempo dopo, ci siamo trasferiti da lui in Brianza e abbiamo vissuto in casa sua, diventata pure nostra, quindi, con i figli che lui aveva già da una precedente relazione e con mio fratello, nato poco dopo. Tra l’altro, sia mia madre sia mio padre si sono risposati ed entrambi nel 2012. Incredibile: sono stata al matrimonio dei miei genitori ma non era tra loro che si sposavano.

Adolescenza in Brianza, quindi.
Tra la Brianza e Milano. Nonostante mia madre avesse l’affidamento, nei fine settimana andavo da mio padre a Milano - fatto un percorso, avevano deciso che dovessi comunque avere rapporto con lui. Così, in pratica, avevo due vite. Da una parte quella in Brianza, con mia madre e il mio gruppetto di amici, e dall’altra quella a Milano, con mio padre e altri amici.

Com’erano i fine settimana a Milano?
Difficili. Ricostruire il rapporto con mio padre è stato un processo lungo e che ha richiesto lavoro da parte di entrambi. Mio padre ha causato tanto male a me e a mia madre ma è stato pure vittima e non ha fatto altro che rimettere in atto dinamiche che lui stesso aveva vissuto in passato. Spesso, quando ero a Milano i fine settimana da lui, stavo fuori tutto il giorno e tornavo a cena, solo per poi chiudermi in camera con il cellulare.

Come sei riuscita a superare quello che ha fatto?
Non l’ho superato. Come scrivo nei ringraziamenti de La signorina Nessuno: «Non ti ho ancora perdonato ma ci sto lavorando». Sono cose che impattano tanto ma imparare a stare nella complessità significa comprendere che ognuno di noi ha dei limiti, che non vuol dire per forza perdonare. Noi da figli siamo convinti che i genitori siano supereroi, e crescendo i loro limiti si rivelano ai nostri occhi come bugie perpetrate negli anni. Dobbiamo accettare che sono umani anche loro, ecco tutto. Mio padre negli anni ha messo in discussione sé stesso, si è preso cura di sé e ha affrontato percorsi di terapia. Ha fatto passi avanti, mi è venuto incontro, e lo apprezzo.

Un oggetto di questa tua adolescenza divisa?
Una valigia. Anzi, la mia valigia con la rana sopra, è il mio animale preferito. È una costante della mia vita. Da quando faccio la modella viaggio tanto e ho la valigia sempre con me. Le mie relazioni più importanti sono state per molto tempo a distanza, e viaggiavo spesso. Quand’ero più piccola e facevo la spola tra la Brianza e Milano ero spesso in treno. Pensa, nei fine settimana milanesi la valigia la portavo pure a scuola.

Perché?
Sono parecchio gelosa delle mie cose e casa di mio padre non la sentivo come mia, così lì non lasciavo nulla. Andavo al liceo a Sesto, lui abitava a Bisceglie e il sabato andavo a scuola con la valigia. Oggi infatti odio farla, la valigia.

Come mai?
Porto sempre troppa roba! Parlandone con l’analista, ho capito che sentivo la necessità di avere con me tutto ciò che mi fa sentire a casa.

Foto Gabriele D’Agostino

Passiamo all’età adulta.
Sono andata a vivere da sola a diciannove anni. Da tre lavoravo già da modella e non ci volevo stare più, a casa con mia madre.

Perché?
Perché sono una persona molto orgogliosa, mia madre non faceva che dirmi che quello, il lavoro da modella e da fotografa non era un mestiere vero e così mi sono detta “okay, sai cosa? Te lo dimostro che è un lavoro”. E me ne sono andata. I suoi intenti non erano cattivi, non c’era malizia, è ovvio, semplicemente cercava di proteggermi.

Reazione di tua madre?
Mi ha detto che se fossi uscita di casa avrebbe cambiato la serratura, allora io ho preso il mio mazzo di chiavi e gliel’ho messo in mano: non si disturbasse a farlo, non sarei tornata. Chiaramente, poi, la situazione si è appianata.

Hai iniziato a fare la modella a sedici anni, com’era dapprincipio?
Odiavo posare, mi faceva schifo. Ma avevo bisogno di soldi, volevo comprare l’attrezzatura fotografica, ed era l’unico modo per far dei soldi in poco tempo. Avevo un’agenzia, poi ho cominciato a lavorare da freelance: facevo qualsiasi lavoro mi venisse proposto, a volte in situazioni pericolose. Andavo nelle case o negli studi di fotografi amatoriali, spesso da sola, ma per fortuna non è mai successo niente.

Hai persistito, e sei riuscita.
Sentivo forte dentro di me il desiderio di dimostrare di potercela fare.

Dove hai vissuto, dopo essere andata via di casa?
La fortuna ha voluto che i genitori di un amico fossero tornati in Albania, loro paese di origine, e che lui affittasse una stanza. Così sono andata da lui e sono andata con un’amica condividendo la stanza, dormivamo in dei letti a castello.

Poco tempo dopo mi sono trasferita, ho affittato un appartamentino in Brianza dove ho vissuto per cinque anni. Era un sottotetto senza abitabilità, un posto assurdo: d’estate boccheggiavo, ai lati era alto un metro, al centro due: l’unica zona vivibile era quella centrale. Il bagno era nella parte bassa e ricordo che quando venivano amici maschi, per fare la pipì, dovevano sempre stare con il capo chino.

Dormivo su un materasso posato su dei bancali, non avevo i soldi per un letto vero, e avevo un comodino, preso per trenta euro a Colonne, che mi ero trascinata, a piedi e poi in treno, da Milano alla Brianza. Che periodo! Però, sai, ne ho un bel ricordo. È stata la mia prima tana, quella.

Parliamo del corpo, adesso. Da una parte ci lavori, fai anche la modella, dall’altra ti causa dolore, sofferenza fisica. Come vivi questa dicotomia?
La malattia, in realtà, mi ha aiutata ad avere una visione del mio corpo diversa da quella che avevo. Prima ero schiava dello sguardo altrui: dovevo avere un corpo bello. Dalla diagnosi però sono cambiate molte cose, e ho capito che il corpo è il mio strumento d’esperienza nel mondo: in quanto tale devo tutelarlo e nient’altro. Non importa che sia bello, devo proteggerlo.

Foto Gabriele D’Agostino

Lo odi mai?
Sì. Ci sono giorni in cui lo detesto e vorrei solo spegnerlo, ma non si può. Una notte, tempo fa, avevo dolori fortissimi, non riuscivo a dormire e su Instagram ho scritto corpo, mia croce e delizia, quanto è difficile abitarti. D’altra parte, al mio corpo sono anche grata. Si deve imparare ad accettarlo, il corpo, non a combatterlo. Spesso sui giornali scrivono “Soleri lotta contro la vulvodinia”. No, io non la combatto: sarebbe una battaglia persa in partenza. Ciò che cerco di fare è combattere per il mio diritto alla salute.

Quando hai scoperto di averla?
Il 2 settembre 2020.

Perché hai deciso di esporti tanto?
Per rabbia.

Nei confronti di?
Di un sistema che non si cura dei dolori di cui soffre una percentuale così alta di donne. Una su sette ne soffre, hai idea di quante siamo? E tante neanche lo sanno. Hanno dolori incredibili ma non possono, non riescono a dare un nome al loro dolore. Io ho avuto il privilegio di andare in ottime strutture. Avevo i soldi per curarmi, spendevo dai seicento ai milleduecento euro al mese, cifre folli. Ma chi non ha queste fortune come dovrebbe fare?

Altre ragioni?
Quando ho iniziato a parlarne su Instagram avevo centomila seguaci, e se l’ho fatto è anche per questo: avevo una piattaforma, perché non sfruttarla, cercare di far del bene, informare, aiutare? È stato spaventoso, specie all’inizio. Mica è facile dire davanti a centomila persone che mi fa male la vulva. Però sentivo un’urgenza, e mi dicevo: se posso aiutare anche una sola donna, devo farlo.

Cos’hai ricevuto in cambio?
Merda e affetto. Dopo l’intervento per l’Endometriosi ho dovuto congelare il mio account Instagram.

Perché?
Perché ero psicologicamente molto fragile, per via dell’operazione e tutto ciò che stavo affrontando, e c’erano persone su Instagram che mi auguravano di morire sotto i ferri. Lo scrivevano proprio. A loro dire, stavo sfruttando la mia malattia per avere notorietà: questa non è solo una grossa falsità, è anche una cosa schifosa. Pochi giorni dopo poi, quando stavo pian piano riprendendomi, sono tornata su Instagram e ho capito che parlare della malattia, in realtà, non solo era giusto, ma anche importante.

Avevo ricevuto molti messaggi: ragazze che dovevano operarsi e avevano paura, donne che si erano già operate e che mi davano consigli. Ecco, mi sono detta che era per loro che lo stavo facendo. C’era un senso di comunione bellissimo in quei messaggi: eravamo unite. La condivisione dei propri dolori è un potente incantesimo contro la solitudine.

A proposito degli attacchi, spesso li ricevi anche per le tue scelte estetiche. Perché credi che certe persone si sentano legittimate a scriverti, parlarti del tuo corpo come fosse loro?
Perché il corpo delle donne è considerato un possesso della società, è sempre stato così. Il patriarcato si basa su questo: sul controllo. Si può trattare delle mie sopracciglia ma anche di faccende molto più serie, gravi, importanti come l’aborto. Questi attacchi però non arrivano solo dagli uomini, ma pure dalle donne. Donne che si sforzano di aderire ai canoni della società, vittime di un sistema che ti fa credere che non ci sia spazio per tutte e in cui essere il più belle possibile è un dovere vero e proprio. Perché tu puoi infrangere queste regole?, si chiedono. E scatta la reazione. Qualche giorno fa mi ha scritto una signora sui cinquant’anni: te lo dico da madre, staresti meglio se ti facessi le sopracciglia. Tanto per cominciare: chi sei? Perché pensi che il tuo parere mi interessi? E soprattutto, starei meglio per chi? Se io sto bene con me stessa, non conta altro.

C’è un certo livore.
Dopo il servizio de Le Iene, delle persone su Instagram mi hanno augurato di essere stuprata. Stuprata. Ti rendi conto? Uno ha scritto: tanto non lo portano a termine che hai la figa pelosa.

Tu rivendichi di poter scegliere. Nient’altro.
Esatto. È il mio corpo, non il loro.

Non ti attaccano di persona, però. Pensi avvenga una spersonalizzazione sui social?
Sì, e se sei un personaggio pubblico ti trasformi in un cartonato. Pensano che non provi alcunché, leggendo ciò che scrivono.

Tu metti le tue fragilità sotto gli occhi di tutti, così da poter condividere il dolore, farlo comunione con gli altri, le altre. Crei uno spazio in cui chi soffre possa trovare riparo, vicinanza. È qualcosa che hai fatto anche con la raccolta di poesie, “La signorina nessuno”. Perché hai voluto pubblicare?
C’è una frase inglese a cui sono molto legata: sharing is caring. Condividere è prendersi cura sia di te stesso sia degli altri sia della società in cui viviamo. Avrò sempre le mie fragilità, ma se le metto sulla piazza possono servire agli altri e alle altre. E allora diventano virtù comuni.

Questa raccolta è anche un’autobiografia?
La poesia deve raccontare qualcosa di te, altrimenti è esercizio di stile.

La poesia è per tutti?
L’arte deve essere accessibile a tutti. Il mio ex fidanzato ha una galleria d’arte, io non avevo il diploma e non ero mai entrata in un museo, convinta che non avrei capito niente. Lui, però, mi ha detto una cosa che mi ha cambiata: l’arte non devi capirla, deve solo darti qualcosa.

Giorgia, hai cinquant’anni ed è domenica mattina. Dove sei, che fai?
Sono a casa con i miei gatti, c’è profumo di colazione e sono in vestaglia, in una casa luminosa. Leggo tutta la mattina, e vado a pranzo con un’amica. Non sono ancora realizzata, e per questo il fuoco che mi tira avanti è ancora vivo. Ma mi vedo felice.

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