Dopo La verità sul caso Harry Quebert, Joël Dicker ha collezionato un successo dietro l’altro. A soli 37 anni, lo scrittore ginevrino ha già all’attivo sei romanzi; milioni di copie vendute, libri tradotti in più di 30 lingue, da La verità sul caso Harry Quebert è stata tratta una serie tv. Da qualche settimana, Dicker è tornato in libreria con Il caso Alaska Sanders, edito in Italia da La nave di Teseo.

Un romanzo che non solo vede il ritorno di Marcus Goldman, il protagonista di due suoi libri precedenti, ma anche di quella particolarissima alchimia che solo Dicker, oggi, sa creare sulla pagina. Primo in tutti paesi in cui è uscito, in Italia ha venduto 50mila copie in due settimane, di un mercato in un momento difficile.

Quanti anni avevi quando ti sei avvicinato alla lettura?
Circa 12, e da allora non ho mai smesso.

Il primo libro che ti ha lasciato qualcosa?
The last wolf of Ireland, di Elona Malterre. È un libro per ragazzi, l’ho letto a 12 anni, appunto, e ne ho ancora oggi un ricordo vivido. A colpirmi però non è stato tanto quel libro nello specifico quanto il potere del raccontare una storia. C’era un mondo, in quel libro. Un mondo in cui potevo entrare, assieme ai personaggi, e imparare tanto sia di me stesso sia di ciò che avevo attorno.

Poi?
Poi ho scoperto Ken Follett, e tutto è cambiato. Facevo delle sessioni incredibili di binge reading
, pomeriggi interi a leggere.

Quindi volevi fare lo scrittore fin da ragazzino.
Sì e no. Volevo raccontare storie, ma non sognavo di fare lo scrittore. C’è differenza tra il desiderio di raccontare e quello di fare lo scrittore. E poi, da ragazzino non ero capace di immaginare di far diventare quella passione il mio mestiere. Erano sogni vaporosi, senza alcun tipo di proiezione futura.

Cosa vuol dire per te raccontare una storia?
Connettersi con una parte più profonda di me stesso con cui altrimenti non potrei dialogare, e forse neanche vedere.

Quando si è fatta concreta l’idea che potessi farlo come mestiere?
Quando ho iniziato a scrivere in modo ragionato. Intorno ai vent’anni è stato come se le storie che raccontavo da ragazzino si trasformassero, quasi per una loro volontà, in mondi reali, sfaccettati, concreti. Allora mi sono detto che era quello ciò che volevo fare: costruire nuovi mondi. Così ho mandato il mio primo romanzo a vari editori.

Com’è stato avere a che fare con una realtà che avevi sognato per così tanto?
All’inizio difficilissimo. A soli vent’anni avevo già collezionato tanti rifiuti, e raccapezzarmi non è stato semplice.

A quante case editrici lo hai mandato, il tuo primo romanzo?
Tantissime! Almeno 20.

È andata male, quindi.
In un certo senso, sì. Come dicevo, avevo solo vent’anni e già una lista parecchio lunga di rifiuti sulla scrivania della mia camera. Il punto però è che non mi sono perso d’animo. È strano, e lo so, ma se da ragazzino non riuscivo a immaginare di fare lo scrittore, a vent’anni, poi, non riuscivo a immaginare di fare altro. Insomma, non è andata male perché non mi sono scoraggiato.

Cosa ti ha fatto andare avanti nonostante i rifiuti?
Te l’ho detto: semplicemente, non immaginavo di fare altro nella vita. Non potevo fare altro. Se scrivi per essere pubblicato, i rifiuti ti pesano, certo, e possono destabilizzarti, ma se invece lo fai perché senti qualcosa dentro, no, non ti sfibrano neanche un po’: la direzione è chiara, devi solo trovare la via.

Come sono cambiate le cose con il successo?
Sinceramente non credo ci siano stati tanti cambiamenti nel mio modo di lavorare, di vivere la letteratura. L’unica differenza è che ora mi sento forte nella mia identità di scrittore. E non è un fatto scontato, anzi.

Che intendi?
Affrontare il fallimento è, per certi versi, più semplice che affrontare il successo. Se fallisci, e se riesci a non farti destabilizzare, puoi rimontare in sella e riprovare ancora e ancora e ancora, imparando dai tuoi errori, cercando di migliorarti e puntando con precisione sempre maggiore all’obiettivo. Se invece hai successo, devi stare attento sia a non ubriacarti con i traguardi che hai raggiunto, sia a mantenere una tua autenticità.

Hai detto che pure il tuo modo di lavorare è rimasto lo stesso.
Esatto. Quando è arrivato il successo mi sono detto che tutto quel che avrei dovuto fare non era che continuare a scrivere così come avevo fatto fino ad allora. L’unica differenza rispetto all’inizio è la stanchezza – sono stanco. Dopo ogni libro, quand’è finito e consegnato all’editore, mi dico praticamente sempre: basta, questo è l’ultimo, non scrivo più, ho concluso la mia carriera.

Perché?
Scrivere è estenuante da un punto di vista fisico – fanno male la testa, la schiena, gli occhi – e da un punto di vista psicologico – significa stare tutto il giorno e tutti i giorni da soli, per settimane, mesi, anni, chiuso in una stanza, tu e la pagina bianca: un lavoro molto solitario. Quindi sì, quando finisco un romanzo penso sempre: basta, è l’ultimo.

Ma non lo è mai.
Non lo è mai.

Perché?
L’ho detto prima: non riesco a immaginare di fare altro.

Torniamo all’esordio. Spesso parli del tuo primo e unico editore, Bernard de Fallois, morto quattro anni fa. Eravate legati?
Molto. Per me è stato un amico, un maestro. Mi ha insegnato tanto, e oggi gli devo tutto. È lui la ragione per cui ho creato la mia casa editrice.

Hai una tua casa editrice?
Sì, da pochissimo. Si chiama Rosie & Wolfe.

E l’hai aperta per lui, per de Fallois?
Bernard nel testamento ha chiesto che la casa editrice, creata e portata avanti da lui per anni, venisse chiusa alla sua morte. Non voleva continuasse senza di lui. Quando mi è arrivata la notizia mi sono sentito spaesato. Non sapevo che fare, dove andare. Chiaramente, gli editori interessati a pubblicare i miei nuovi romanzi, chiusa la vecchia casa editrice, erano tanti, ma il mio percorso da scrittore era nato con Bernard e non volevo che continuasse con altri. Così piuttosto che scegliere una nuova casa ne ho creata una io.

Parliamo dei tuoi libri. Spesso i personaggi vivono una profonda solitudine - penso, ad esempio, a Marcus Goldman. Perché?
Be’, è un mondo solitario, il nostro. Siamo tutti soli, almeno è così che la vedo. Anche quando siamo circondati di persone, anche quando non siamo fisicamente soli, capita di avere la sensazione di abitare un mondo vuotato da ogni forma di vita. Per questo i miei protagonisti sono soli.

Da cosa credi dipenda?
Difficile dirlo, ma penso che parte della colpa la si possa attribuire ai social. Su Facebook e Instagram mostriamo una vita che non è la nostra, tutta sorrisi e colori, ma non è la realtà. Ciascuno di noi ha delle giornate grigie ma pare che nessuno sia disposto ad ammetterlo, e non intendo solo sui social ma pure nella realtà. È una deformazione che parte dai social per approdare alla realtà: non ci è concesso mostrarci tristi su Internet e quindi manteniamo una sorta di sorriso perenne pure nella vita reale. Ma è sbagliato, ci porta a sentirci incompresi, di conseguenza soli.

Non pensi sia mancanza di empatia generale, quindi.
No, piuttosto credo manchi la volontà di aprirsi, raccontarsi, affidarsi a chi si ha vicino. Ci teniamo tutto dentro perché abbiamo paura di non essere capiti e non vogliamo correre il rischio di essere giudicati ma quando viviamo la vita per sottrazione perdiamo inevitabilmente tante cose.

Un periodo in cui ti sei sentito particolarmente solo?
Da ragazzo è capitato, sì, ma non riesco a localizzare un periodo nello specifico. Oggi succede meno. Amici, moglie e figli mi danno molta forza.

Una vita perfetta.
Nessuna vita è perfetta (ride
). Ho una bella vita, non mi lamento, ma per il mio lavoro devo viaggiare parecchio e questo toglie tempo alla mia famiglia, spesso ho paura di perdere pezzi dell’infanzia dei miei figli.

Sei uno scrittore di successo, inutile negarlo. Quindi ti chiedo: c’è qualcosa che senti di aver sacrificato?
Non mi viene in mente nulla ma sicuramente qualcosa l’ho sacrificato. C’è un’immagine molto bella in proposito in cui il successo viene raffigurato come un iceberg: la parte emersa è il successo, ed è quel che si vede da fuori, la parte sott’acqua è ciò che è stato sacrificato, quel che nessuno vede.

Tornando ai tuoi libri. Anche il passato ha un ruolo fondamentale - in questo tuo ultimo romanzo Marcus deve risolvere un caso di omicidio avvenuto 11 anni prima. Che rapporto hai con i ricordi?
Un bel rapporto. Il passato è importante, è quel che ci definisce e che ci aiuta a capirci vicendevolmente. Io e te stiamo parlando ormai da mezz’ora, ma non ci conosciamo, non davvero. L’unico modo che avrei per conoscerti, per avere un’immagine fedele di te, passerebbe per il tuo trascorso. Il passato ci definisce, sempre. Per questo scavo nei ricordi dei miei personaggi.

Mi dai un’immagine del tuo passato che mi faccia capire chi sei?
Io, da ragazzo, che cammino su una spiaggia vicino la casa in cui sono cresciuto. Passeggiare vicino al mare o all’oceano ti concede la possibilità di immaginare cosa potrebbe esserci lì, aldilà dell’orizzonte, cosa che ho sempre amato molto. Sognare, immaginare: è fondamentale.

Cosa sono i sogni?
I sogni sono ciò che ti tiene sveglio la notte.

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