Parla la regista vincitrice del Festival di Cannes 2023, entrata in aperta polemica con l’esecutivo francese. Il suo film Anatomia di una caduta sarà al cinema dal 26 ottobre: «Per me il set è un terreno di ricerca»
Esterno giorno: sul viale di uno chalet isolato tra le alpi, un bambino ipovedente sta tornando a casa da una passeggiata con il cane, a terra, il corpo di suo padre smorza il biancore accecante della neve con evidenti tracce di sangue. Com’è finito lì? E caduto o è stato fatto cadere dall’alto della loro casa? Siamo di fronte a un incidente, a un suicidio o forse a un omicidio? Viene avviata un’indagine in cui la moglie, una scrittrice tedesca che era in casa durante “l’incidente”, diventa la sospettata numero uno.
Questo è l’incipit del quarto film di Justine Triet che dopo Jane Campion nel 1989 (Lezioni di piano) e Julia Ducournau nel 2021 (Titane) è la terza donna a ricevere l’agognata Palma d’oro al festival di Cannes. Una vittoria avvolta nella polemica, non per la qualità di un’opera appassionante ma per il discorso antigovernativo della regista che ha criticato non solo la riforma delle pensioni, ma anche l’atteggiamento mercificatorio e neoliberale di un governo pronto a distruggere l’eccezione culturale francese.
Lo spazio per i giovani
«Credo che il governo e le figure che occupano posti di responsabilità abbiano il dovere di avere una visione e di salvaguardare la cultura. Il mio discorso a Cannes era davvero rivolto ai giovani e a chi inizia questo mestiere», dice Triet.
«Non potevo ricevere una onorificenza come la Palma d’oro, senza pensare ai miei inizi: sono entrata dalla porta di servizio falsificando il tesserino stampa e fingendo di essere una giornalista per girare i miei documentari. È così che mi sono intrufolata in questo settore, non ho fatto scuole di cinema o altro, ma ho potuto sperimentare e anche sbagliare».
Un altro mondo rispetto a quello attuale: «Oggi è sempre più difficile per i ragazzi approcciarsi al mondo del cinema che è sempre più chiuso, formattato e con dei budget sempre più alti», continua la regista. «Da alcuni anni gli adattamenti di romanzi prevalgono sulle creazioni originali, perché i finanziatori vogliono essere rassicurati. Il mantra è: Non preoccupatevi, faremo soldi. In realtà, è un idiozia, ho fatto film con un mega casting che non hanno incassato nulla e altri come questo che sono un inaspettato successo al botteghino. Non dico che bisogna fregarsene degli incassi, dico solo che invece di essere sempre di più al servizio di una piattaforma o di un romanzo best seller da adattare, bisogna continuare a sperimentare».
«Non esiste un solo modo di fare cinema, dobbiamo reinventarci, trovare nuovi codici narrativi, altrimenti diventa tutto molto noioso, Il mondo del cinema è affascinante, ma va sempre scosso per non addormentarsi», dice Triet. «Se no, non esisterebbero artisti come Yórgos Lánthimos per esempio (Leone d’oro per Poor things a Venezia 2023) o altri registi con uno sguardo unico e originale che hanno avuto il tempo e la possibilità di esprimersi. L’opportunità di fare ricerca artistica va assolutamente protetta per permettere un ricambio generazionale. Il mondo intero invidia il sistema di sovvenzioni statali in Francia e bisogna salvaguardarlo per continuare a dare un futuro alla creatività»
La mancata candidatura
La ministra delle Cultura, Rima Abdul Malak, si è detta “disgustata” dal discorso fatto a Cannes da Justine Triet. Sarà per questo che la commissione di selezione per rappresentare la Francia agli Oscar ha preferito il gastronomico ma poco digeribile La Passion de Dodin Bouffant di Trần Anh Hùng al suo film?
Una scelta piuttosto contestabile visto il successo di pubblico in patria (più di 1,2 milioni di spettatori) di un film che sta conquistando il mercato internazionale, tanto che Anatomia di una caduta è stato acquistato anche negli Stati Uniti dalla prestigiosa Neon, la casa di distribuzione che nel 2020 ha reso possibile il trionfo di Parasite di Bong Joon-ho, vincitore di quattro Oscar, tra cui quello del miglior film tout court.
«Sono appena tornata dagli Stati Uniti dove sto lavorando molto sulla campagna Oscar, la cosa divertente è che molti membri dell’Academy non hanno ancora capito che non sono stata selezionata dalla Francia per l’Oscar internazionale», commenta Triet: «È piuttosto strano perché il film sta avendo un successo impressionante anche all’estero, cosa molto rara per una regista donna, e i numeri al botteghino sono la prova evidente che è un film esportabile e non elitista».
Universale
Un film “universale” che da spettatori ci catapulta tra i banchi di un tribunale, ci coinvolge, ci interroga, ribaltando le nostre convinzioni fino a renderci giudici e testimoni. Ma dietro al dramma giudiziario si nasconde l’autopsia di un amore corroso che viene dissezionato in aula.
«Non è la prima volta che realizzo un film su una coppia, sulla vita in convivenza», dice Triet, «ma è sicuramente la prima volta che mi addentro così profondamente nei meandri di una storia d’amore che finisce. Il film processuale è un genere che mi ha permesso di sviscerare al meglio la dinamica di coppia perché in un’aula, la storia privata tra due persone viene esposta, riletta e giudicata da altri. Il tribunale diventa uno spazio dove si fantastica e dove la storia viene distorta, è un’ambientazione che mi ha permesso allo stesso tempo di raccontare una storia molto intima ma anche di divertirmi con i codici romanzeschi del cinema giudiziario».
«Mi sono ispirata a molti film tra cui L’amore bugiardo di David Fincher ( 2004) per cui nutro un vero odio/amore, o il classico Anatomia di un omicidio di Otto Preminger (1959) e ovviamente non mancano le influenze di film processuali come la Verità di Henri-Georges Clouzot (1960) o Juvenil court (1973), il documentario di Frederick Wiseman che ha cambiato il mio sguardo sul sistema giudiziario», aggiunge.
Narrazione aperta
Contrariamente ad altri registi Justine Triet non prende per mano lo spettatore, ma lo mette nella stessa posizione di un giurato: le testimonianze si susseguono, gli avvocati si scontrano e la storia dell’accusata si scheggia in tante verità in cui è difficile distinguere il vero dal falso. Una narrazione aperta che nasce già durante le riprese dove la regista ex documentarista non vede l’ora di farsi sorprendere dalla forza dell’imprevisto.
«Il set è come un terreno di ricerca, non ci devono essere certezze... questo è il mio quarto film e ho imparato ad accettare il dubbio. La sceneggiatura per me è una cosa morta, benissimo che ci sia, ma non è certo come un libro, non può essere definitiva. Per me il momento in cui arrivano gli attori è quello cruciale perché è il punto in cui tutto quello che ho immaginato e scritto va a farsi benedire... devo accogliere la trasformazione della fantasia in realtà, e questo è molto interessante», spiega la regista. «A volte con certi attori hai dei problemi e non capisci perché la scena non funziona, con altri invece è una gioia perché hai l’impressione che ti siano entrati nel cervello, hai la sensazione di abitare il loro corpo, di quasi far parte del loro organismo».
A portare il peso dell’ambiguità della protagonista su ogni millimetro del suo corpo c’è una straordinaria Sandra Hüller: poco truccata, mai seducente ma molto umana nel ruolo di una madre e compagna imperfetta che non piange troppo e non si scusa abbastanza come farebbe una vera vittima in aula.
Un ruolo ad anni luce dai soliti cliché femminili cinematografici per un’attrice che il Los Angeles Time ha incoronato a maggio scorso come la “regina di Cannes” anche per la sua interpretazione nel Grand prix The zone of interest di Jonathan Glazer in cui incarna il ruolo ingrato della moglie di Rudolf Höss, comandante a Auschwitz.
«Sandra ha questa capacità sorprendente di dare una verità a delle scene un po’ artificiose o cliché attraverso la sua fisicità. Molti attori si concentrano sul primo piano, hai l’impressione che tutto accade sul loro viso, Sandra invece si immerge anima e corpo nel personaggio», commenta Triet. «Durante le riprese mi chiedeva spesso prima della battuta: “Dove vado? Mi sposto in questa direzione?” L’azione nasceva da quello che stava per dire, non era mai intellettuale, portava avanti in modo quasi animale un personaggio enigmatico a cui il pubblico si è completamente identificato e credo che questo sia il vero segreto del successo di questo film».
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