Prima di cominciare a leggere o rileggere Wodehouse è raccomandabile sapere, non necessariamente in quest’ordine, che:

– era un inglese che ha passato gran parte della vita adulta lontano dall’Inghilterra, tra la Francia e gli Stati Uniti che ha amato (riamato), con uno spiacevole intermezzo in Germania (poi ci arriviamo);

– era un bambino delle colonie, rispedito a due anni in Inghilterra da Hong Kong, dove il padre era magistrato, per vivere con la tata e i due fratelli grandi in una casa accanto a quella dei nonni, in attesa di essere imbarcato nella sequenza di boarding school che sono state il suo paradiso;

– in famiglia tutti avevano nomi bizzarri: lui è stato battezzato Pelham Grenville, che sembra il nome di un villaggio di campagna, subito e per sempre accorciato in Plum, ovvero Prugna; i suoi fratelli maggiori si chiamavano Peveril e Armine, il più piccolo Lancelot;

– avrebbe voluto e sarebbe dovuto andare a Oxford, come il fratello Armine, ma un rovescio finanziario l’ha costretto a ripiegare su un lavoro in banca, due anni di tedio consumati a fare il meno possibile e a leggere o scrivere di nascosto alla scrivania come un Bartleby ipereccitato, fino a licenziarsi per scegliere un’incerta carriera di carta e inchiostro;

– non apparteneva alla classe sociale di cui racconta nei suoi romanzi, ma a uno strato appena più sotto, vicino quel tanto da conoscerne ogni vezzo, vizio e abitudine, lontano quel tanto da prenderne le distanze e dileggiarla con garbo;

– è diventato molto ricco molto in fretta, e non solo per i libri, ma anche per le canzoni, popolarissime, e per la militanza nel mondo del musical statunitense, scintillante di nomi come Ziegfeld, Kern, Gershwin, Astaire, il che spiega i suoi lunghi e ripetuti soggiorni a New York e gli incalcolati andirivieni transatlantici affrontati con insana disinvoltura nel corso degli anni Venti e Trenta del Novecento;

– ha lavorato anche a Hollywood, strapagato per fare pochissimo (parole sue), scrivendo una ventina di sceneggiature per The Talkies, ovvero il neonato cinema sonoro;

– all’inizio della Seconda guerra mondiale sarebbe potuto partire per l’America, dove ormai era una stella fissa da una ventina d’anni, ma è rimasto in Europa perché sull’ultimo volo disponibile c’era posto per una sola persona, e avrebbe dovuto lasciare indietro la moglie e il cane;

– il cane in questione era un pechinese di nome Wonder, e la moglie si chiamava Ethel, era due volte vedova e aveva una figlia, Leonora detta Snorky, che Wodehouse ha adottato e adorato;

– è un uomo che si può raccontare coi numeri: quasi cento i romanzi, uno ogni tre mesi nei primi anni di successo, poi uno ogni sei (da una lettera del giugno 1922: «Ho un contratto per finire un romanzo, ventotto racconti e un musical per la fine di ottobre, non ho idee né mi aspetto che me ne vengano»); cataste di lettere pubblicate (chissà quelle perse o buttate via) scritte al ritmo di trenta al mese, con punte di quarantatré (fonte: Wodehouse); le file di zeri sugli assegni dei suoi compensi, documentati con minuzia nella corrispondenza di famiglia, che lo fanno ricco in modo stabile, ma con un basso continuo di ansia (il che spiega perché ne scriva ossessivamente); e infine venti zie (anche questo spiega parecchio) e quindici zii, di cui quattro nel clero;

– ha combinato un grosso pasticcio alla radio nel pieno della guerra, e qui ci vuole un po’ più di spazio, e anche il tono deve cambiare. Quando nel 1940 la Francia viene occupata dai nazisti, Wodehouse e la moglie sono nella loro villa a Le Touquet, sulla costa nord. Rinunciano alla fuga anche perché il limite d’età per l’internamento dei nemici maschi è sessant’anni e Wodehouse, che ne ha cinquantanove, spera nell’indulgenza tedesca, ma viene lo stesso separato da Ethel e in quanto inglese rinchiuso in una serie di campi. L’ultimo è la fortezza di Tost, in Slesia. Ormai manca solo qualche mese alla sua liberazione quando nel giugno del 1941 due agenti della Gestapo lo prelevano e lo portano all’Hotel Adlon di Berlino, da dove, incoraggiato a distanza dal suo agente, accetta di tenere una serie di trasmissioni radio per il pubblico americano della CBS in ideale risposta alle tante lettere che ha ricevuto durante la reclusione.

Sono cinque puntate raccolte sotto il titolo Come essere un internato senza previo addestramento, che nelle sue intenzioni raccontano con umorismo e bonomia à la Wodehouse alcuni episodi della prigionia; ma la propaganda tedesca, che fa un uso attentissimo dell’etere come mezzo di persuasione, ha orchestrato tutto con abilità e riesce a indurre chi ascolta a sospettare che l’illustre ospite sia un fiancheggiatore.

Le sue parole possono anche essere innocenti, e pensate per la platea d’oltreoceano, ma rimbalzano dalle onde radio naziste fino in Gran Bretagna, dove lo sdegno è istantaneo e rovente: si parla subito di tradimento e collaborazionismo, si accusa il compatriota di aver venduto la propria liberazione. Chiusa in tutta fretta la parentesi radiofonica (a quanto pare, alle orecchie naziste come collaborazionista suona comunque troppo blando) e lasciata Berlino per andare sui monti ospite di amici tedeschi, Wodehouse ascolterà più e più volte la registrazione su disco delle puntate, da solo sulla veranda della loro casa in montagna, come stordito davanti a ciò che lui stesso ha scritto e letto in un accesso di imperdonabile candore, seriamente convinto di dar voce soltanto a «una breve serie di reminiscenze meramente spiritose e frivole».

In patria gli intellettuali si dividono, ma il popolo lettore è più compatto: i suoi libri vengono banditi dalle biblioteche, le vendite da sempre imponenti si riducono a un gocciolio, le sue canzoni non sono più trasmesse. Ci vorranno tempo e indagini per scagionarlo ufficialmente; i servizi segreti inglesi concludono nella loro relazione che sì, è stato ingenuo e sciocco, ma non è un traditore. «Gli eventi del 1941 non lo rendono colpevole di niente di peggio che di stupidità», scriverà nel 1946 il più illustre dei suoi difensori, George Orwell, nel suo intervento In difesa di P.G. Wodehouse apparso sulla rivista Windmill, chiedendo di chiudere l’affaire una volta per tutte: «Poche cose in questa guerra sono state più moralmente disgustose dell’attuale caccia a traditori e collaborazionisti. Nel migliore dei casi non è niente più che una punizione inflitta ai colpevoli dai colpevoli. (...) Nel caso di Wodehouse, se lo costringiamo a ritirarsi negli Stati Uniti e a rinunciare alla cittadinanza inglese finiremo per vergognarci tremendamente di noi stessi».

Wodehouse diventerà cittadino americano nel 1955, non tornerà più in Gran Bretagna, e un gesto di vera pace il suo vecchio mondo glielo offrirà troppo tardi, nel gennaio del 1975, quando sarà fatto cavaliere un mese prima della sua morte.

E adesso torniamo daccapo; e torniamo leggeri.

Sapere tutte queste cose è raccomandabile, certo illuminante, ma non necessario. Qualcuno ha scritto che non c’interessa la vita del panettiere quando abbiamo fame di pane. Solo che Wodehouse non ci dà pane: ci serve (a mezzo Jeeves, naturalmente, preceduto da un tossicchiare discreto e due toc toc sulla porta) scones lucidi di burro verso mezzogiorno dopo una nottata trascorsa al club; o una delle impronunciabili portate dell’intemperante cuoco Anatole (che una classifica del Guardian censisce come uno dei dieci migliori chef letterari di sempre); o buffet freddi fintamente modesti bagnati da ruscelli di champagne (esiste un concorso letterario per libri comici che accosta il nome di Wodehouse alle bollicine); o cesti da picnic per le gite di primavera. Ci dà, in poche parole, qualcosa di lietamente inutile. Imbandisce una merenda soffice e croccante che divoriamo per restare con un sorriso di briciole buone sulle labbra. Tutto merito della sua scrittura vaporosa, fresca e ondulata come un completo di seersucker ma, bisogna dirlo, delicata come carta velina, così facile da stropicciare o strappare, così ardua da riprodurre se si vuole essere fedeli ma non pedanti, fatta di citazioni illustri storpiate o parodiate (o meglio: Bertie Wooster storpia, Jeeves con pazienza rettifica e spiega), riferimenti a un’attualità distantissima, riti di vestizione, cocktail desueti, dialoghi deliziosi. Come questo, dal racconto Tangled Hearts del 1948:

«Miss Flack?»

«Pronto?»

«Mi spiace disturbarla a quest’ora, ma vuole sposarmi?»

«Sicuro. Chi parla?»

Sì, il caro buon vecchio Plum, lo sgobbone della macchina per scrivere che componeva otto pagine al giorno, cinquantamila parole in un mese, un romanzo intero in tre, è anche un maestro del dialogo, di quell’arte della conversazione di cui è intessuto il grande romanzo inglese. Lui il suo mondo però lo vuole piccolo: tutto succede nel raggio di pochi luoghi amati, Londra e l’indistinta campagna, la Riviera e il club, tutto raggiungibile via Train Bleu o in decappottabile; ci mette a parte di un lessico famigliare ed esotico che appartiene al mondo degli eterni ragazzi d’oro cresciuti tra burle, inni, cricket e latino nelle public school, con i loro soprannomi insensati (Bingo, Pongo, Oofy) e le memorie condivise, che parlano la lingua del privilegio, del denaro vecchio, così vecchio che magari è anche finito, ma resta ancora vaporizzato nell’aria come un’onda di Shalimar; ci fa invitare dalle zie in labirintiche dimore estive dove nella dispensa c’è sempre qualcosa da rosicchiare quando si vaga insonni cercando la soluzione ai rovelli sentimentali di un amico più esperto di tritoni che di ragazze.

L’Inghilterra di Wodehouse è già morta quando lui ne scrive, è un mondo che non c’è più. «Bertie Wooster, se è mai esistito, è stato ucciso attorno al 1915», scrive Orwell nel suo saggio del 1946. Ma a noi, dalla nostra distanza di un secolo e di anni luce, che cosa importa se quell’Inghilterra non esiste più? E chi l’ha detto, poi? Sicuro che esiste. Siamo stati addestrati a conoscerla e amarla da un repertorio che non ha nulla di polveroso o museale, e risorge come un pop-up da una piega spazio-temporale che ferma tutto e tutti nel qui-e-ora della letteratura. E noi che ci siamo incantati davanti a Quel che resta del giorno, romanzo e film, noi che ci perdiamo con gusto nelle dispute dinastiche della Saga dei Forsyte, noi che torniamo sempre a Brideshead con Evelyn Waugh ma anche a Downton Abbey con Julian Fellowes e il suo corteo equamente diviso tra upstairs e downstairs, noi riconosciamo gli arredi di scena, i props, come si dice in inglese, e ci piacciono, e li vogliamo proprio lì, precisamente lì. Jeeves alla fine è quello, un prop animato, un servomuto dotato di quell’interessante appendice che è il cervello di cui invece manca Bertie, l’adorabile scioccone capace di perdere la testa per uno spencer coi bottoni dorati.

Wodehouse è stato pubblicato con costanza in Italia, ed è giusto, perché così si onorano i grandi autori: vestendoli di nuovo perché possano scendere dagli scaffali alti o remoti ed essere riletti. Gran parte della narrativa oggi in libreria è fatta per distrarre, e va bene così; ma quella dell’intrattenimento seriale è spesso un’evasione tanto semplificata da sembrare un orologino trasparente, con tutti gli ingranaggi messi a nudo per rassicurare il lettore e compiacerlo: ecco, adesso succede questo, e poi quest’altro, te lo aspettavi, eh? Ma bravo! Contento? L’evasione di Wodehouse funziona in un altro modo: sai già come va a finire la storia, perché non può che finire bene, ma non sai come ci si arriverà, e il bello sta proprio lì, nelle deviazioni, negli scarti, nelle sorprese, nei viottoli che tagliano i parchi delle dimore di campagna dove eterne ragazze pallide vagano di notte aspettando la domanda giusta dall’uomo sbagliato (o viceversa) e zie astute incagliate in una perenne mezza età trionfano come amazzoni in un mondo dominato da uomini imbelli che vanno di volta in volta blanditi, scrollati, insultati, raggirati.

Un critico del New York Times scrive nel 1946, quando la tempesta mediatica sul Wodehouse traditore si sta ormai placando: «Può anche darsi che ricorra alla stessa trama più e più volte. Qualunque cosa faccia è moderatamente meraviglioso, un raggio di pallido sole inglese in un mondo grigio». È la recensione a Joy in the Morning, il romanzo che arriva dopo l’incubo di Berlino. Moderazione non è in sé una parola bella: implica un che di trattenuto e represso, di smorto. Però pallido non vuol dire per forza smorto; e moderazione è anche misura. La misura perfetta di un romanzo di Wodehouse, che finisce in levare, con uno strappo, come se un’intervista si chiudesse con una domanda. Abbiamo tutti bisogno di gioia al mattino (e anche la sera; per l’ansia, le corse, le preoccupazioni c’è tutto il resto del giorno). Allora leggiamo Wodehouse nelle mattine di domenica, o d’estate, quando non dobbiamo correre da nessuna parte ma vogliamo lo stesso essere altrove; e però anche d’inverno prima di dormire, in treno, all’aeroporto, dentro la noia di febbraio. Evadere dal mondo grigio (e viola, e nero) ogni tanto ci è necessario; è facile, basta un libro. Ma che quel libro sia moderatamente meraviglioso.

Introduzione a Alla buon’ora, Jeeves! Meravigliosamente curato e tradotto da Beatrice Masini, Sellerio, luglio 2024

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