I dati mostrano un aumento dell’autolesionismo tra i giovanissimi, che è legato anche alle challenge estreme che si trovano sul web. La mediatizzazione della realtà che passa per gli smartphone porta a scambiare per fake ciò che è vero, per un gioco i pericoli morali
La terribile notizia è sfuggita ai più. Il grande ospedale pediatrico romano del Bambino Gesù ha comunicato che dall’inizio dell’anno il suo pronto soccorso ha ricevuto 387 giovanissimi (il 90 per cento ragazze), per motivi che possono sembrare insoliti e perfino inesplicabili.
Ciò che ha portato in ospedale quei giovani si chiama bullismo, mobbing, challenge. Se i primi due termini sono entrati nel dizionario, oltre che tra le angosce delle famiglie, challenge, benché non ancora pienamente accreditato, indica un fenomeno nuovo ma non meno inquietante.
Challenge è infatti la “sfida” diffusa via social network a lanciarsi a gara nelle prestazioni fisiche più bizzarre, assurde (perlomeno agli occhi degli adulti ancora in sé) ed estreme. Trattandosi di una sfida, chi è sfidato non può ritirarsi, a costo di sembrare vigliacco e di esporsi così a mobbing.
Le sfide
Cercando su Google si scoprono alcune di queste sfide. Per esempio, il balconing, che consiste nel saltare da un balcone all’altro. O il base jumping, che richiede che ci si lanci nel vuoto da un palazzo (building, la B di base), un’antenna (la A), campate di ponti (span, la S) o qualunque formazione naturale (earth “terra”, da cui la E finale). Una delle più recenti consiste nell’aggrapparsi al tetto di un’automobile in velocità per vedere chi regge più a lungo.
Tutte queste pratiche, esposte a pericoli mortali anche per gente esperta, trasformate in provocazioni brucianti a cui i più giovani non possono opporsi creano tensioni così gravi da finire in ospedale.
Tutte queste storie hanno player in comune. Anzitutto, hanno tutte alla base la sfida, quell’impulso che Roger Caillois, in alcuni libri negli anni Quaranta (come il bellissimo La comunione dei forti) aveva chiamato col termine greco di ilinx (“vortice”) indicandolo addirittura come l’elemento germinale del gioco: “ogni attrazione il cui primo effetto sorprenda e stordisca l’istinto di conservazione”, il desiderio cieco di correre rischi fino al limite estremo, di mettersi in situazioni difficili senza immaginare come se ne uscirà. La sfida del vortice è quella di “esser trascinato alla rovina e insieme persuaso di non poter resistere alla potente fascinazione”.
L’altro aspetto comune è che sono generati dai social o meglio dal loro supporto, lo smartphone, che rivela così la sua natura diabolicamente bifronte. Benché ormai indispensabile alla vita associata in quanto tramite di un’immensa varietà di funzioni (prenotare, comprare, pagare, fare operazioni bancarie, ascoltare musica, comunicare ecc.), ha dato anche origine a una sorta di nuova etologia a rovescio, che coinvolge soprattutto giovani e giovanissimi.
Questi da una parte sono attratti dall’immensa varietà di esperienze mediate dallo smartphone (inclusa quella, gratuita e sterminata per tipi e forme, della pornografia online), dall’altra sono distolti e allontanati dalla vita vera, a cominciare da quella della scuola e dell’apprendimento.
Insieme ma soli
In più paesi si tenta da tempo di limitare l’uso dello smartphone. Nel 2018, l’allora ministro dell’educazione francese Michel Blanquer annunciò che sarebbe stato vietato nelle scuole elementari e medie, non solo nelle ore di lezione, ma anche durante la ricreazione. «I bambini non giocano più nelle pause, stanno tutti dinanzi agli smartphone e dal punto di vista educativo questo è un problema», dichiarò, aggiungendo: «Le famiglie devono capire che è una questione di salute pubblica».
Il plauso fu unanime, ma non risulta che alcuna misura efficace sia stata presa. D’altra parte, le reti TV francesi presentano da tempo uno spot piuttosto forte che vorrebbe indurre i genitori a tener d’occhio quel che i loro figli guardano sul display. In Italia si comincia appena a capire che la pornografia online, accessibile a chiunque con pochi clic, è all’origine di diversi fatti di violenza sulle donne da parte di giovani e giovanissimi.
Malgrado i propositi dei ministri, allo strapotere di questi media è difficile opporsi. Hanno alle spalle interessi economici enormi e sono diffusi in modo così capillare che governarli è materialmente impossibile. Tutto ciò a dispetto degli studi che già da tempo indicavano le implicazioni cognitive e sociali di questi media.
Per esempio, Insieme ma soli, un libro del 2007 della psicologa sociale statunitense Sherry Turkle, mise la questione sotto gli occhi di tutti. Il titolo è una trasparente allusione al fatto che la connessione in rete (nella quale molti di noi, giovani e ragazzi inclusi, sono immersi per ore e ore al giorno), pur sembrando una forma di condivisione, è in realtà una radicale forma di solitudine.
Spunta qui un altro importante player di questa storia: la solitudine. Chi è catturato dallo smartphone, magari preso in un challenge o nella visione clandestina di una clip porno, è solo. In un saggio di un paio di anni fa (Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali, Einaudi), Mattia Ferraresi (ben conosciuto ai lettori di questo giornale) ha dato una intensa e acuta analisi delle forme della solitudine d’oggi e delle riflessioni che ha stimolato presso sociologi, teologi e scrittori.
Una miriade di comportamenti dei giovani attuali (a partire dalle droghe) sono nuove forme di solitudine: dai selfie compulsivi di singoli (e singole) e gruppi, ai vari tipi di “branco” che si aggirano per le città, dinanzi alle scuole, nei luoghi di ritrovo, alla presa di distanza dalla “pazza folla” per isolarsi into the wild, come suggeriva il film di Sean Penn del 2007, alla sessualizzazione di una quantità di comportamenti…
Alla propensione a isolarsi ha dato una spinta cruciale l’avvento della mediasfera, l’ambiente mediatizzato all’estremo in cui viviamo. Questa non serve banalmente per stabilire connessioni, ma opera a livelli più profondi e drammatici: sostituisce la realtà vera con una apparente, scambia il reale con il fake, riesce perfino a far sembrare un gioco quella che è una sfida mortale.
I filosofi la chiamano Ersatz “sostituzione”, ma non si tratta di un esercizio filosofico. È una svolta nella visione generale del mondo, che si va radicando capillarmente soprattutto nella mente di chi è privo di strumenti per capire ciò che gli accade, come i giovani e giovanissimi, gli esclusi, gli abbandonati e gli ingenui, e che fino a questo momento sembra produrre solamente effetti catastrofici.
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