Le rivoluzioni sono proclamate sulle navi, le utopie sono vissute sulle isole, scrive Judith Schalansky, autrice dell’Atlante delle isole remote, edito da Bompiani. La scrittrice fa una ricognizione affascinante di luoghi sconosciuti, così lontani da sembrare folle la sola loro esistenza.

In realtà un po’ tutte le isole hanno in sé qualcosa di remoto, non tanto legato alle distanze effettive, quanto all’idea del non essere “terraferma”. Eppure, gli abitanti delle isole hanno consuetudini comuni a chi le isole non le abita. E festeggiano il Natale portando in tavola ricette “isolane”, ma non isolate, perché l’influenza del continente si sente eccome.

Nell’arcipelago Toscano

Sull’isola d’Elba, nell’arcipelago Toscano, il punto d’incontro è l’albero di Natale a Portoferraio. Qui le chiamano le “feste grosse”. I fratelli Mangino, titolari del ristorante il Castagnacciaio di Portoferraio, spengono i fuochi del locale per accendere quelli di casa: «La sera della Vigilia in tavola ci sono baccalà fritto e crostacei, accompagnati da altro fritto ma di verdure, soprattutto carciofi e cardi che noi chiamiamo gobbi.

Di veramente tradizionale abbiamo i dolci, la schiacciunta, l’imbollita di fichi, ma soprattutto la schiaccia briaca fatta con noci, uvetta e vino dolce. Sull’isola ne esistono di due tipi: la nostra, la riese (rossa), e quella capoliverese che è bianca». Sulla più piccola isola del Giglio è Francesco Carfagna a raccontare di un dolce gigliese, il panficato, preparato con fichi secchi e noci, emulo del panforte senese.

Carfagna è vignaiolo da quarant’anni sull’isola con la sua azienda Altura, ma è stato anche ristoratore e nel suo locale Arcobalena preparava questo dolce per Natale: «La ricetta prevede di mettere i fichi a bagno nel vino ansonaco, di usare pochissima farina e diversi pugni di frutta secca. I fichi e le noci si trovavano sull’isola, mentre miele e cioccolato erano ingredienti da nobili».

Tra mare e terra

Nel golfo di Napoli isole e città si guardano, si tengono a distanza ma si somigliano moltissimo. L’isola di Procida è la più piccola e la più vicina. Sull’Isola di Arturo – titolo del famoso libro di Elsa Morante – è nato Marco Ambrosino, chef stellato del ristorante napoletano Sustanza.

Le sue vigilie di Natale erano diurne perché la stanchezza era troppa per aspettare la sera: «Procida era un’isola di pescatori», ricorda Ambrosino, «che uscivano in mare all’alba. Non avrebbero potuto tirare fino a tardi. E così era anche per chi lavorava la poca terra che c’era. Mio nonno, che ha fatto per tanti anni il marittimo, portava dai suoi viaggi diverse ricette esotiche e non era raro mangiare la paella a Natale».

Di tipico c’era – e c’è ancora – il ragù, quello cotto così a lungo da diventare bordeaux. Preparato non con la carne, ma con il pesce: «Era la specialità della nonna», continua lo chef, «che recuperava la cosiddetta “mazzamma”, i pesci di piccola taglia insaporiti con uva passa e pinoli». A Forio d’Ischia, uno dei sei comuni dell’isola d’Ischia, si va ancora in piazza San Gaetano a comprare il pesce nel pre vigilia: la sera del 23 dicembre i pescatori vendono quello che hanno pescato e in attesa della messa si accendono i fuochi.

Procidana di nascita ma ischitana di adozione è Libera Iovine, la prima chef a portare una stella Michelin sull’isola flegrea più grande.

Oggi Libera si gode il riposo dopo una vita passata ai fornelli del suo Melograno e dei grandi alberghi e pensa a cucinare per sé e la famiglia: «Se Procida da sempre è più legata al mare, Ischia in tavola porta la terra», spiega Iovine, «come il coniglio e l’insalata di patate. Un’abitudine legata alle incursioni nemiche: gli ischitani si rifugiavano spesso sul Monte Epomeo e lì si nutrivano con quello che c’era. A Procida, invece, nei giorni di festa, non si mangia pesce, perché è un piatto consueto». Il coniglio all’ischitana compare anche sulle tavole di Natale, ma sull’isola si dice che ci sono ben sette ricette diverse, una in più rispetto a sei comuni.

Libera ripropone la pizza con le scarole della nonna, che ha dentro anche le erbette selvatiche e tanta frutta secca. Va rigorosamente fritta.

Nella Capri tirata a lucido per le feste mancano invece i pescatori. Così il pesce arriva da Napoli con la nave. Qualcosa compra anche Nunzia Attianese, cuoca per passione e che sull’isola tutti conoscono per la bravura in cucina. Per la sera della vigilia prepara i ravioli capresi farciti con una ricotta fatta in casa: «Aggiungo uova, parmigiano e tanta maggiorana, ma il piatto che preferisco è per il pranzo del 26 dicembre, la minestra maritata (perché le verdure si sposano con la carne) preparata con le verdure di campo che, se sai dove andare, trovi ancora in abbondanza sull’isola».

Tradizioni sicule

Le isole al quadrato sono quelle siciliane, arcipelaghi e isole sparse che fanno da corona all’isola madre. La “prepotenza” della tradizione siciliana in cucina si fa sentire anche a diverse miglia nautiche di distanza. Ma qualche tocco autoctono c’è.

A Lampedusa vive e lavora Rosaria di Maggio, cuoca dell’Agriresort Costa House. L’attività d’inverno è chiusa e la chef e le figlie fanno volontariato presso la Casa della Fraternità per aiutare i migranti sbarcati sull’isola.

Rosaria è impegnata anche nelle scuole e insegna ai bambini a fare i dolci di Natale: «Prepariamo i gigli di San Giuseppe, che somigliano agli struffoli napoletani e poi i mustazzuoli con il vincotto di Linosa, a Capodanno», continua la chef, «non deve mancare la zuppa di lenticchie di Linosa, piccole e saporite grazie ai terreni vulcanici». Altra isola più vicina all’Africa che all’Italia è Pantelleria. Qui di pesce se ne mangia poco, perché la terra conta più del mare, come sottolinea Gianni Busetta del ristorante La Nicchia a Scauri Basso.

«Un piatto della tradizione è la braciola di carne, riempita con pane, uovo sodo, uvetta e mandorle. E ricordo che ai bambini si insegnava a intarsiare con il coltellino il buccellato, il dolce più tipico delle feste siciliane, nato molto prima di panettoni e pandori». A Marettimo, una delle Egadi, la detentrice delle ricette classiche è Maria Sercia che gestisce il ristorante più antico dell’isola, aperto nel 1958.

Anche qui il pesce non è scontato nelle giornate di festa: «Siamo al centro del canale di Sicilia e il brutto tempo è cosa comune. Ecco perché sull’isola c’era l’abitudine di essiccarlo. Veniva poi fatto rinvenire sulle braci e servito come antipasto o secondo. Nel mio ristorante sono riuscita a recuperare questa tradizione». Chef di rango è Martina Caruso, due macaron Michelin sulla giacca, uno rosso e l’altro verde. Suo è il ristorante dell’Hotel Signum a Salina, una delle sette isole Eolie, dove sta lavorando benissimo sulla cucina di mare, che vuol dire andare aldilà dell’uso del solo pesce.

Anche lei però non collega il Natale al pescato: «In tavola dovevano esserci la gallina e il coniglio», racconta Caruso, «e se ai più piccoli si lasciavano fare le baddottole, palline di pane e di carne, alle persone più capaci toccavano i vastidduzzi, dolcetti di mandorla decorati come un ricamo. Oggi sull’isola c’è ancora una ragazza che li fa e sono bellissimi, chiedete di Serena Follone».

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