No, il calcio di tornare a casa non vuol proprio saperne. Lo si capisce anche dal tono sempre più sfibrato con cui gli inglesi intonano il motivetto di Three Lions, il brano cantato da David Baddiel, Frank Skinner e i Lightning Seeds. Quel brano si portava dentro già in origine una malinconia che voleva preludere al riscatto.

E invece è rimasta malinconia fine a sé stessa, una ginnastica dello spirito nazionale da esercitare in tutti gli appuntamenti biennali con le grandi manifestazioni calcistiche. E che a ogni delusione si stratifica, come nella notte di Berlino della scorsa domenica.

Sempre loro 

EPA

Per i Maestri d’Inghilterra il calcio è diventato quel gioco in cui si gioca 11 contro 11 per 90 minuti e alla fine perdono sempre loro. Con una costanza disarmante e la sensazione che a ogni nuova tappa di questo percorso di disillusione s’indurisca un callo dell’anima. Chi siamo noi? Quelli dei Tre Leoni che ruggiscono in modo sempre più roco, e digrignano sdentati un orgoglio che non intimorisce più nessuno.

E che ogni volta si presentano all’appuntamento con la storia con l’impressione di aver difficoltà a sostenere l’interrogazione di geografia. Intanto il tempo scorre, e pone il ricordo dei giorni in cui il brano musicale Three Lions veniva pubblicato e fissava a trent’anni il digiuno di successi della nazionale in maglia bianca. Era il 1996 e gli inglesi si apprestavano a ospitare gli Europei.

Il calcio stava davvero tornando a casa e la speranza era bissare l’unico successo nella storia della nazionale inglese, ottenuto nel mondiale casalingo di trent’anni prima. E invece proprio lì ha preso il via la catena delle avversità calcistiche, con la sconfitta ai rigori nella semifinale contro i tedeschi, cui invero bisognerebbe aggiungere un’altra semifinale persa contro gli stessi tedeschi e ai rigori sei anni prima (mondiali di Italia 90).

Soprattutto, si è dilatato il numero degli anni senza successi, indicato ossessivamente dai giornali del lunedì mattina che seguiva la sconfitta di Berlino contro gli spagnoli: 58. Il numero che caccia via le mosche. E ingrassa il tarlo della depressione.

Una delusione troppo grande anche per il tecnico Gareth Southgate, che martedì ha annunciato le dimissioni. Si faccia avanti un altro per provare a invertire il giro della ruota. Lui ha dato.

E subito i tifosi si dividono. Tra chi vorrebbe l’ex allenatore del Liverpool, il tedesco Jürgen Klopp, e chi sostiene invece la tesi che ci voglia “un inglese per l’Inghilterra”. 

Sconfitti? No, perdenti

Confessiamo di aver sperato che vincessero. No, nessuna simpatia particolare per la nazionale inglese e per il suo calcio. È proprio che questa catena di disavventure calcistiche, infine, colpisce e muove a solidarietà anche chi non è direttamente coinvolto. E si chiede cosa mai avranno fatto male gli inglesi, nel calcio, per meritarsi un destino del genere. Che li ha visti perdere due finali di fila degli Europei, e in modi completamente diversi.

Nel 2021, contro l’Italia, la giocavano in casa da favoriti ma ciò non è bastato per evitare di perderla ai rigori. Tre anni dopo si sono presentati da underdog che più underdog non si poteva, mostrando sul campo un animo operaio e un senso di precarietà da rendere ammirevole il percorso verso la finale, giocata contro una Spagna acclamata da pubblico e critica.

Nell’un caso e nell’altro l’esito è stato identico: sconfitta al termine di partite tirate, in cui la squadra di Southgate ha alternato momenti di supremazia ad altri in cui ha dovuto arginare l’avversario. E se proprio si deve scegliere quali delle due prove in finale sia stata la migliore, indichiamo quella contro gli spagnoli. Dove la nazionale in maglia bianca ha dovuto affrontare una corrente avversa e lo ha fatto col temperamento mostrato durante tutto un Europeo trascorso a rimontare situazioni di svantaggio. Lo ha fatto una prima volta anche domenica sera e stava per riuscirci la seconda volta. A evitarlo è stato un salvataggio sulla linea, di testa, da parte di un attaccante. Cosa di più simbolico?

C’è soprattutto che ormai ha svoltato anche la categoria della narrazione. Che impone un’etichetta scomoda, agghiacciante. I primi, grandi insuccessi facevano sì che gli inglesi fossero “gli sconfitti”, quelli che uscivano battuti da una prova. E in fondo c’è un elemento romantico, fortemente cavalleresco nella figura dello sconfitto.

Invece il cumulo delle sconfitte sta facendo maturare l’etichetta di “perdenti”: cioè coloro per cui la sconfitta è un destino storico, non un episodio. La nazionale inglese e i suoi sostenitori sentono sempre più forte questo peso. Non capiscono nemmeno come ci siano finiti dentro. Il problema è che non sanno da dove cominciare a uscirne.

© Riproduzione riservata